12. Silenzio

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Quella notte dormii angelicamente. Non dormivo così bene da quando mi ero trasferita in quella casa, quel covo di fantasmi, quel ritrovo maledetto. Restai basita quando aprii gli occhi con un senso di tranquillità e vidi la luce riflettere dalla serranda. Eppure, quando finalmente ero pronta a ricevere visite, non ne ricevetti nemmeno una. Mi aspettavo risposte, una cazzo di risposta da quel cazzo di fantasma. Perché? Troppe domande, troppi pensieri, stavo impazzendo. Perché non era venuto? Perché diavolo era un fantasma?! Perché non perdevo la testa per i ragazzetti della mia età? Probabilmente la risposta era dentro la domanda: perché non desideravo un ragazzetto qualsiasi. Forse desideravo un uomo. Un uomo con occhi penetranti e con fare onnipotente. Mi sentivo terribilmente attratta da quell'essere così misterioso, così dannatamente... intenso. Il suo sguardo mi uccideva ogni volta che lo incrociavo. Avevo dormito bene, però. Il mio sonno non era stato compromesso. Il che poteva soltanto significare che se non era venuto, era una cosa positiva per me. Di certo non mi faceva bene socializzare con queste creature. Socializzare? Era socializzare quello? In fondo che dialogo avevo avuto con questo essere? Lui era arrogante, ambiguo, sfuggente. Forse ero attratta dall'idea che mi ero fatta di lui? Un fantasma che poteva toccarmi. Mmm... la mia sanità mentale stava crollando. Quegli occhi neri... quella cicatrice... sussultai al tremolio sulla mia schiena, accorgendomi che stava scendendo sempre più in basso. Il mio sguardo si posò sulla sveglia, che sarebbe suonata entro due minuti. Erano le 7.00 ed era giovedì. Il fine settimana si stava avvicinando ed io non bramavo altro che un normale weekend da adolescente. Ormai volevo soltanto uscire da quella casa, mi sentivo come... osservata. Stropicciai gli occhi e mi stiracchiai. Bloccai la sveglia e scesi in cucina. Accesi la caffettiera, misi la cialda e premetti il tasto. Il caffè sgorgò dal tubicino e l'immagine di quegli occhi mi apparse di nuovo, neri come quel caffè. Posai il bicchierino sconcertata. Il cellulare squillò e la scritta "Peppe" trillava per tutto lo schermo. «Sei già qui?» risposi stressata. «Buongiorno a te! Ti aspetto» e chiuse. Passai una giornata frustrante, cominciandoci dalle lezioni. Dovemmo sorbirci tre ore di Seconda Guerra Mondiale, «Oggi hai soltanto un'espressione» sibilò Peppe cercando di non farsi sentire dal professore. Gli gettai un'occhiataccia in preda allo stress. Dopo quelle ore passate a sentire le vicende della Germania, del Giappone, degli Stati Uniti e Hitler e Mussolini, e che cazzo, mi pentii di essere uscita dal letto quella mattina. Nonostante tutto, però, mi sentivo una persona normale. Una normalissima teenager che si lamentava della sua normalissima scuola. Adesso un'ora di educazione fisica. Finalmente un barlume di luce. Uscimmo dalla classe e ci avviammo eccitati e in fibrillazione verso la palestra della scuola. Peppe ed io ci infilammo negli spogliatoi femminili e accendemmo una sigaretta per alleviare lo stress. «Ahh. Non chiedevo altro, cazzo!» osservai Peppe fare il primo tiro guardandomi con i suoi luminosi zaffiri. «Tieni, sbampa». Mi porse la sigaretta. «Sei stressata, Haley» continuò. In effetti non lo si poteva nascondere. Quella mattina indossavo un pantalone di tuta blu leggermente scolorito e una felpina color fragola, avevo i capelli raccolti in un codino lento e non avevo un filo di trucco. Mi guardai allo specchio fuori dalla toilette dello spogliatoio, ma non mi sembrava di vedere chissà quale mostro. «Sono così indecente?» chiesi al rossino maniaco della perfezione fisica e dell'igiene e con eccellente gusto nel vestire. «Ti sei andata a scartare un amico checca, tesoro. Non puoi andare in giro con me conciata in quel modo» la sua voce vellutata e fine dominava il suo indice, che mi puntava dalla testa ai piedi. «Ma vaffanculo!» scoppiai in una fragorosa risata e gli detti uno spintone con il fianco. Finalmente mi sentivo più rilassata e, come ormai d'abitudine, era Peppe a farmi riprendere. Trascorsi una giornata alquanto debilitante. Ero infastidita, sbuffavo anche quando non ce n'era motivo. Trascorsi tutto il pomeriggio a leggere quella dannata Seconda guerra mondiale, erano circa venticinque pagine, senza il dopoguerra. Mi sentivo esasperata, ma una lettura per farmi un'idea di quello che avrei affrontato nelle prossime settimane era la cosa più importante da fare. Mia madre ogni tanto affacciava alla porta della stanza, sorridente e premurosa. Non meritavo quel calore quel pomeriggio, sentivo di non esserle riconoscente e questo mi rendeva più acida di quanto già non fossi. Quando incombette il buio, tesa come una corda di violino, mi adagiai sul letto, col lumino acceso, attendendo, come ormai di routine, un segno. Lo aspettavo, bramavo quella sensazione vibrante e afrodisiaca che quel fantasma mi trasmetteva. Quella musica che i suoi occhi potevano suonare sulla mia schiena, quelle labbra di marmo che potevano scolpire ogni singolo centimetro del mio corpo. Sgranai gli occhi al pensiero, e scossi la testa disapprovando quella minima parte oscura ed erotica della mia mente. Haley Connery! Che cazzo ti sta succedendo? Sentii le mie narici allargarsi all'estremo quando una ventata ghiacciata disturbò la mia respirazione. Quando sentii la mia mano dentro le mutande sentivo di essere arrivata al limite. La scostai con furia scioccandomi da sola per quella reazione. Fanculo. Afferrai il piumoncino e mi coprii fino alla testa. Quella notte irrequieta vidi nel sonno un coltello grande quanto un braccio, un essere incomprensibile con un occhio nero e un occhio azzurro e mani che toccavano mani. Sentivo freddo, tremavo. Quel piumoncino non mi bastava, sicuramente non sembrava Settembre. La mattina seguente ero ancora più frustrata e di malumore dei giorni precedenti. Adesso il fantasma tormentava anche i miei sogni, cosa mi stava facendo? Quella creatura con un occhio azzurro e uno nero cosa poteva significare? E quel coltello? Quante domande di prima mattina, quanta confusione. Questa volta erano dieci minuti alle 7.00, ma era venerdì. «Cosa si fa il venerdì?» mi aveva chiesto Peppe con sguardo malizioso. Si usciva, ecco cosa si faceva. Sì! Non potevo stare ancora una notte ad aspettare qualcuno che probabilmente era già uscito dalla mia vita. Ti devo dimenticare, Fabrizio. Annuii come una psicopatica rassicurandomi e dandomi forza. A interrompere i miei pensieri fu un messaggio di Peppe: «Buongiorno, stasera facciamo le zoccole ;)» sorrisi come un ebete al pensiero che finalmente stasera sarei uscita e mi sarei divertita a dovere con il mio migliore amico. «Buongiorno! Dobbiamo guardare l'alba insieme. Non ho intenzione di dormire nel mio letto u.u"» scrissi eccitata con un leggero tremolio alla schiena. Chissà cosa avremmo fatto. Immaginai discoteche, alcool e sesso. Fanculo a Fabrizio, fanculo alle mie stupide domande. Perché eccitarmi all'idea di un fantasma che poteva toccarmi, quando qualsiasi ragazzo vivo era in grado di toccarmi? Perché aspettare se non c'era niente da aspettare? Non tolleravo più quel silenzio. Tutto taceva quando Fabrizio non mi faceva visita. Adesso il gomito era passato e anche il livido sul polso era sparito. Ogni traccia di quell'essere era sparita. Erano bastate due tacenti notti per trasformarmi in una dissennata. Almeno, quel "buongiorno" mi cambiò l'umore. Saltai precipitosamente dal letto con la prospettiva che il venerdì sera in città con Peppe mi attendeva.

Il DonoWhere stories live. Discover now