9. Normalità

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L'ultima campanella suonò. Quel dolce suono che avvisava la fine delle lezioni, il suono preferito da noi studenti. Quel primo pomeriggio di settembre era particolarmente soleggiato. Io e Peppe uscimmo dalla scuola più in sintonia che mai, e decidemmo di pranzare direttamente al centro commerciale. Percorremmo la strada che ci portava alla fermata dell'autobus, dove accanto vi era una deliziosa edicola ambulante, e i due vecchietti proprietari stavano seduti lì davanti a prendere il sole. Peppe accese un'altra Marlboro light in attesa del bus, non poteva farne a meno. Aveva preso il vizio del fumo in seconda superiore, e adesso era diventato difficile, quasi impossibile smettere. Per le strade vi era soltanto caos, poiché era l'orario di uscita di tutti gli studenti. Un sacco di compagni di scuola mi passarono davanti, anche quelli del primo anno, con i loro zainetti e le facce ancora spaesate, mentre quelli più grandi dominavano quelle strade. L'autobus arrivò e un gruppo di ragazzi spazzarono via me e Peppe per arrivare primi e prendere i posti migliori. Era uno stress, odiavo gli autobus. Nel New Jersey ero abituata diversamente, poiché Jake e James avevano già la macchina ed io non avevo problemi di questo tipo. Esattamente come ieri, non trovammo posti e restammo in piedi ed io mi appoggiai sudaticcia nel palo. Nell'autobus c'era caldo, ma soprattutto un tanfo di sudore nauseante, la faccia di Peppe dopo un pò cambiò colore e diventò quasi lattea e le sue lentiggini facevano risaltare occhi che ormai di lì a poco avrebbero lacrimato. «Resisti, Pè! Stiamo arrivando, no?» cercai di dargli conforto, ma allo stesso tempo quell'immagine mi fece scappare una risata. Dopo tre fermate, l'autobus cominciava a svuotarsi, così io e Peppe riuscimmo a sederci e magari respirare quel pò d'aria che usciva dai piccoli finestrini. Adesso aspettavamo la quarta fermata, che ci avrebbe lasciato a pochi metri dal centro commerciale. Prima d'ora non ero mai uscita sola con un ragazzo, la mia vita precedente ruotava attorno al quartetto "Haley, Jake, Claire e James", ma non ero mai uscita sola con un ragazzo che non fosse il mio. Adesso era diverso, Peppe è gay, totalmente disinteressato, voleva soltanto la mia amicizia, come io volevo la sua. Oggi mi sentivo una ragazza normale. Gli esterni del centro commerciale erano spettacolari. L'edificio era pieno zeppo di persone, e a primo impatto mi sentii quasi confusa. Quella zona, però, al contrario dell'edificio, dava l'impressione di vivere a Brooklyn. Peppe e i miei compagni mi avevano informato della nomina dello Zen. Era la zona più malfamata di Palermo, dove la delinquenza aumentava di anno in anno, le famiglie erano ignoranti e di mentalità chiusa, ma soprattutto, all'antica. Le ragazzine aspettavano i 15 anni per poter trovare un ragazzo, fidanzarsi e metter sù famiglia. Questo era lo Zen.  «Però il centro commerciale è bellissimo.» commentai quando entrammo. Immediatamente mi arrivò alle narici un profumo di rosticceria, così, senza pensarci un attimo, ci precipitammo verso il bar e ordinammo due arancine con carne, una pizzetta e un rollò. «Scchignorina, vedo che apprezza... » disse il rossino tra un boccone e l'altro. «Altroché! Non avevo mai mangiato la rosticceria! Mmm... » Il centro commerciale era meravigliosamente unico, vi erano luci, profumi e suoni che riuscivano a far sentire a casa il più straniero degli stranieri. Finalmente, dopo quella scorpacciata di rosticceria, decidemmo di fare un giro fino a che non avremmo trovato il negozio d'accessori che cercava Peppe. «Devo assolutamente fumare. Vieni con me?» il solito Peppe. Ma come faceva a togliersi il sapore del cibo col fumo? «Vai, vai! Ti aspetto, ma sbrigati.» Ero talmente piena e soddisfatta, che in quel momento volevo soltanto oziare in quella sedia. Peppe si allontanò con la sua Marlboro light e l'accendino, mentre io mi rilassai su quella sedia. C'erano tantissime famiglie, ragazzi come me e Peppe usciti da scuola, musica country e trenini per bambini che passavano. Mentre osservavo, mi pervase un brivido e cominciai a sentire freddo. Misi il giacchino e tornai a osservare l'edificio. Aspettai qualche secondo per capire se mi stavo riscaldando, ma tremavo, così presi il giubbotto di Peppe e misi anche quello. Perché sentivo freddo? Stavo prendendo il raffreddore oppure il centro commerciale era pieno zeppo di fantasmi? Probabilmente la seconda. Improvvisamente non mi sentivo più a casa, volevo soltanto uscire da lì. Presi lo zaino e mi alzai. Fu in quel momento che intravidi qualcuno di familiare. Sentii la bocca spalancarsi quasi dallo stupore e la chiusi immediatamente. Era lui. Era il fantasma che era venuto in camera mia la notte scorsa, quello che mi aveva provocato un graffio enorme sul gomito e una manacciata sul polso. Colui che mi aveva toccato. «Ehi! Tu! Aspetta!» non aveva scampo. Non poteva scappare di nuovo. La creatura si girò verso di me, e quel viso meraviglioso per un nanosecondo s’illuminò, poi si scurì di nuovo e il fantasma si mise a correre. «Eh no! Stavolta no! Per favore!» lo rincorsi eccitata, quasi scivolando su un tovagliolo da bar, urtando decine di persone, ricevendo decine d’insulti e imprecazioni. Quasi stavo rinunciando al suo inseguimento, finché la creatura non si fermò in un punto fuori dall'edificio, si girò, con i suoi jeans strappati lungo le cosce e le ginocchia, con la sua maglietta rossa eccessivamente larga, e con i suoi capelli neri corti che brillavano alla luce, e mi guardò. Oddio, mi sta guardando... e adesso che gli dico? Pensai con gli occhi spalancati per l'eccitazione. La sua cicatrice mi chiamava, anzi, chiamava le mie dita, che irrefrenabilmente avrebbero esplorato quella grande linea su quel meraviglioso viso. «Che vuoi da me?» il fantasma aveva parlato, con aria sfidante e un tono serio da far ribollire il sangue. Ricordai quello che avevo pensato prima di entrare al centro commerciale, che mi sentivo normale, fino a mezzora prima. Mi sentivo una teenager come tutte le altre, la quale i suoi unici problemi riguardavano i ragazzi della sua età, le amicizie e cercare di mantenere la propria media scolastica. No... non ero normale, non lo ero mai stata. Dovevo portare questo fardello per tutta la vita, e dovevo affrontare ciò che mi offriva.

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