Parte 20 - Ikigai

66 5 0
                                    

-//-//-//-

Il concetto di morte sembrava rimbalzare sulla corteccia cerebrale di Artemis.
Non voleva accettare quel pensiero: lo conosceva bene e sapeva che sarebbe stato un ospite invadente.
Quell'idea corse all'assalto e venne respinta sistematicamente ancora e ancora, per minuti che parvero ore, lasciandola completamente imbambolata, nuda davanti agli asciugamani sparsi attraverso il bagno.
Fissando allo specchio il suo volto eroso da un pianto silenzioso, cercò di raccogliere tutta la concentrazione che le serviva per quel compito scellerato, maledicendosi per aver trovato il coraggio necessario solo in quella disperazione.
Srotolò sul bordo del lavandino l'astuccio degli attrezzi appena rubato dall'uniforme di Tamatoa. La sua scarsa abitudine agli alcolici l'aveva fatta crollare dopo nemmeno un'ora dalla notizia. Per tutto il tempo in cui aveva lottato con l'ebrezza, la dama aveva continuato a mormorare parole confuse e tristi su quanto le dispiacesse per la morte di Law. Si lasciò andare perfino a un abbraccio e ad Artemis, a un certo punto, parve di sentirla piangere.
Lei, d'altro canto, si era spenta come il freddo involucro di un cyborg. Per questo non avrebbe saputo dire di preciso quando e come avesse allestito quella sala operatoria improvvisata, né dove avesse trovato il fegato di deglutire un altro shot e rigirarsi tra le mani i suoi ferri. Li scorse con lo sguardo: forbicine, pinzetta, ago, filo e una piccola boccetta di un disinfettante dall'odore aspro e chimico. Artemis l'agitò controluce, sospirando quando arrivò alla conclusione che fosse davvero poco.
Non era abituata a tutta quella pressione, mentre lavorava. Nessun piano B, nessuna linea temporale di supporto e una ghigliottina pronta a cadere sulla nuca della sua ciurma. Tutto ciò che restava dipendeva drasticamente dalla fermezza della sua mano.
Imbevve un frammento di stoffa spugnosa nell'acqua salata della sua vasca. Afferrandolo con le pinze, tamponò la pelle del collo, perdendo presto la sensazione del tatto mentre cercava il percorso dei chirurghi di Sant'Ana. Una volta trovato, sentì le sue budella stringersi e la mascella serrarsi di riflesso.
Allargò le lame delle forbicine e prese a incidere lo strato di pelle più superficiale, realizzando presto quanto blando fosse l'anestetico che aveva scelto. Un rivolo rossastro e pulsante prese a scorrerle sul petto, ma già a quella profondità irrisoria riusciva a sentire il supporto della placca.
La inseguì per quasi mezz'ora, destreggiandosi tra le ingannevoli simmetrie dello specchio e il tremore che le spostava le mani. Il sangue diventò presto un'unica, enorme macchia sul suo décolleté e sulle dita. Quando riuscì a estrarre l'agalmatolite, si ritrovò tra le estremità della pinzetta pochi centimentri quadrati di un metallo opaco e sporco e sul volto quanto di più simile a un sorriso riuscisse a produrre. L'aveva appoggiata sul bordo del lavabo per poi dedicarsi a riposizionare i punti esattamente dov'erano, nonostante la curvatura che era riuscita a imprimere all'ago da cucito fosse molto più leggera di quanto le servisse. Assottigliò il filo tra la labbra e centrò la cruna, facendo avanzare la cucitura per avvicinare i due lembi di pelle. Disinfettò il suo lavoro con calma, lavando via il sangue con cura e dovizia. Collocò attentamente i bendaggi e una profonda stanchezza si infuse nel suo petto.
La sua opera, tuttavia, non era ancora conclusa. Se essere la Reina Blanca le aveva insegnato qualcosa, era di certo l'importanza dei diversivi: aveva visto molte volte che il delitto perfetto non è quello senza indizi, ma quello che non viene neppure alla luce. Le serviva qualcosa di plausibile, che giustificasse il sangue e la debolezza che l'avevano presa, qualcosa di talmente chiassoso da seppellire la sua paranoica precisione in un raptus.
Raddrizzò l'ago tra i denti, lavò e rinfoderò ogni strumento, avendo cura di tenere la forbicina per sè.
Raccolse la piastrina di agalmatolite e la custodì in bocca, facendo mille prove per nasconderla tra i denti e sotto la lingua, facendola sparire come un'illusionista.
Frantumò la boccetta del disinfettante e poi, nonostante il brivido di rifiuto che la percorse, lo specchio sopra il lavabo. Il pavimento del bagno si riempì di frammenti, minuscole schegge le si conficcarono tra le nocche e le graffiarono i piedi.
Quando il suo piano era quasi concluso, avvertì Tamatoa lamentarsi lievemente nel dormiveglia. Calciando in modo disordinatamente plausibile gli asciugamani, Artemis si avvicinò alla vasca di deprivazione, la forbicina stretta in mano. Pregò che le scienze umanistiche non avessero sovrascritto le sue conoscenze anatomiche e incise in maniera grezza i palmi e i polsi, facendo bene attenzione a evitare il sistema circolatorio principale. Il sangue uscì comunque copioso, terminando di macchiare la stoffa che la circondava. Tese l'orecchio per seguire le fasi del risveglio della sua dama e, appena percepì che aveva trovato il letto vuoto, entrò in acqua, tingendola di porpora.
Il tepore fluidificò il sangue, mentre ogni ormone l'avesse tenuta in piedi fino a quel momento sembrò abbandonarla. Il pensiero razionale si fermò e l'unico delirio che riuscì ad afferrare, avvolta in quel buio, era quanto sporca e imprecisa fosse uscita la maledetta sutura. Anche in un contesto simile, era un lavoro fatto da cani: se il suo Law l'avesse vista, sarebbe andato su tutte le furie. "Dopo tutta la pratica che ti ho fatto fare?" L'avrebbe ripresa "E con un filo così grosso?! Cosa sei, un macellaio?"
La parola "Perdonami." si formò da sola sulle sue labbra, mentre una spallata scardinava la porta e le braccia di Tamatoa ripescavano il suo corpo da un lago vermiglio, puntuali come da copione.

[One Piece OC] FacelessWhere stories live. Discover now