Epilogo

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«Tanti auguri, bambino mio
La donna lo sussurrò con un'intonazione nostalgica, a pochi fiati dal sorriso impresso in una fotografia ovale. Era chiaro che quella curvatura fosse ingannevole, ma, per rincuorarsi, constatò che si allargasse comunque su un viso tinteggiato da chissà quale artista rinascimentale: una bellezza fisionomica dalle linee limpide, la sua, eleganti, di certo autentiche.

Era proprio stupendo, quel bambino, e avrebbe preferito contemplarselo ancora dinanzi alle pupille, malgrado le porcherie che gli avevano macchiato l'anima. Desiderava accarezzargli il capo come soleva fare quando era in vita, e, nel lungo periodo, distinguergli l'accresciuta maturità al conteggio di qualche capello bianco. Non le sarebbe importato di vederlo marcire in una cella o in qualsiasi altro posto per quelli come lui; tutte alternative migliori, rispetto alla tristezza della tomba.

Era il primo gennaio, quel giorno suo figlio avrebbe compiuto trentatré anni e gli mancava ogni cosa, anche i meandri più torbidi della sua ombra.

Rammentò che l'anno precedente lo avesse chiamato per intonargli una canzoncina augurale, dicendogli, infine, che lo voleva al suo fianco, a casa, per preparargli i suoi adorati tortellini al ragù.

Se solo avesse scorto un pericoloso malcontento dietro quel: grazie mamma, poi vediamo...

Lui, a quei tempi, stazionava a Madrid e lo sentiva dalla lentezza con cui emetteva i vocaboli forbiti che qualcosa non stesse andando per il verso giusto. Forse, i furenti dissidi con patron Powell erano già in atto da Natale, ancor prima di andarsene in Canada. O, chissà, forse l'astio permeava entrambi dall'inizio della loro conoscenza.

Ma, dopo tutto, a che serviva scervellarsi?

A cinque mesi dai fatti di Parigi, non aveva importanza ricostruire le dinamiche nascenti di un antagonismo: i due ragazzi non erano più tali e i loro spiriti erano dispersi altrove, in luoghi impalpabili nei quali vigeva solo quiescenza.

Lì, al cimitero di Certosa, in quello striminzito corridoio che scindeva due pareti di loculi, Elena si guardò intorno con circospezione e, tenendo il cappuccio sulla testa cotonata, al riparo dalle intemperie e dal cicaleccio cittadino, si arcuò per vezzeggiare il defunto mediante un gesto d'affetto: tra le incisioni del nome e la bronzea Vergine in bassorilievo, impresse un bacio. Ghiacciarono le labbra all'incontro con il marmo, così come s'immaginava infreddolissero le ossa di Lorenzo accatastate oltre quelle barriere di morte.

Si asciugò le lacrime cadute raspando le unghie sugli zigomi avvizziti, affrettandosi cosicché le debolezze non fossero colte da passanti e comparse. Erano emblema di pena e amore che, secondo taluni giudizi, non avrebbe mai dovuto provare. Sbagliava, a detta dei parenti; vietato sorvolare sui reati e la perfidia, continuavano da saccenti. Nessuno era però abile a mettersi nei panni della madre di un mostro. Ostico era comprendere che certi sentimenti non si spengono solo perché scopri che qualcuno è diventato cattivo.

A Bologna tutti seppero che, durante una notte di festa, il figlio del professor Fabbri avesse accoltellato a morte l'impresario del circo presso cui aveva lavorato. Furono anche resi noti gli atti efferati nei confronti di Scarlett. Mesi di ricatti e soprusi che si risolsero in un muto suicidio.

Lorenzo, infatti, non fu mai condannato per quanto commesso. Il giorno dopo i funerali della vittima, celebrati in Lituania, fu ritrovato esanime nella sua stanza ospedaliera, a Parigi. Si impiccò incastrando una camicia nella cerniera della porta del bagno, dopo che ebbe consumato normalmente la cena. La degenza, per quei sette minuti, fu sorvegliata con poca attenzione.

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