Capitolo 14

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Can

Rientrai al lavoro dopo una settimana chiuso in casa a causa della febbre. Ero consapevole di non coprirmi abbastanza, certe volte, mi bastava solo una camicia e il cappotto, ma a quanto pareva stavolta il freddo era stato più ostinato di me.

Aprii la porta del mio ufficio e trovai due operai che tinteggiavano le pareti.

«Che cosa succede?» chiesi, corrugando la fronte.

Non fecero in tempo a rispondere che intervenne Metin: «Scusa se non ti ho avvisato, Can, ma ho pensato che in tua assenza era ora di dare una rinfrescata».

«Ma io ora come faccio? Dove lavoro?» chiesi sbuffando.

«Lo so, avrebbero dovuto finire due giorni fa ma c’è stato un contrattempo, per cui… credo che per oggi devi accontentarti del tuo vecchio ufficio.»

«Non se ne parla proprio! Ormai è uno sgabuzzino, mi mancherebbe l’aria» commentai.

«Tranquillo, ho chiesto a Maia di fare un po’ di pulizie e spostare lì momentaneamente le tue cose.»

«Metin, io in quella stanza non ci voglio tornare. E’ chiaro?» cercai di spiegare, quasi arrabbiandomi.

«Mi dispiace, Can, ma non posso farti stare da me, ho un incontro importante. E’ solo per oggi, dai, domani tornerai di qua» concluse Metin, dandomi una pacca sulla spalla e allontanandosi.

Per niente contento di quel cambio, mi avviai imprecando verso quello che per anni era stato il mio ufficio e che avevo lasciato mesi prima per ovvie ragioni. Aprii la porta e un odore di pulito, per fortuna, mi investì. In un angolo c'erano accumulate alcune scatole, mentre sulla scrivania c'erano già tutti gli strumenti per lavorare: il mio pc, la mia agenda, le mie penne, il mio datario… in pratica tutto ciò che mi serviva era lì davanti a me. Chiusi la porta e andai a sedermi sulla mia vecchia sedia girevole, mentre i miei occhi caddero sul divano di fronte e ricordi di "fuoco" si affacciarono alla mia mente. Aprii anche il terzo bottone della camicia perché mi sembrava di soffocare. Mi alzai, presi uno degli scatoloni e lo misi sul divano, forse così evitavo di pensare.

Un’ora dopo, sentii bussare alla porta. «Si può?» chiese Deren.

«Entra!» le dissi, sorridendo.

«Ti ho portato un caffè» disse, avvicinandosi e sfiorandomi, per poi posare il bicchierino sulla scrivania.

La ringraziai e lei si sedette sulle mie gambe, cingendomi il collo con un braccio. Non l'aveva mai fatto. Un altro ricordo riaffiorò e io mi sentii morire.

«Volevo dirti che ieri sera sei stato dolcissimo» mi sussurrò, guardandomi negli occhi e arrossendo.

Le sorrisi, ma dentro di me sentivo di non stare a mio agio. Nonostante ciò, non l’allontanai e le lasciai una carezza sul viso.

«Sai a cosa sto pensando?» disse ancora. «Potrei raggiungerti a fine turno qui e… c’è anche il divano…» lasciò intendere chiaramente le sue intenzioni.

«Deren, è meglio evitare in ufficio. Non voglio che qualcuno capisca e si metta a fare allusioni.» In realtà, non volevo che succedesse niente su quel divano.

«Ma dopo le 18 non ci sarà più nessuno» puntualizzò lei.

«Ho detto "no"!» dissi dolcemente ma deciso, dandole un semplice bacio sulle labbra per non alimentare sospetti.

«D’accordo, come vuoi! Non insisto» esclamò sorridendo, ma leggermente delusa.

«Ora scusami ma ho molto lavoro arretrato e se resti qui non riesco a concentrarmi.»

Il mio volo sei tuDove le storie prendono vita. Scoprilo ora