2.

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Heidi.

Mi rigiro nel letto per l'ennesima volta. È quasi l'alba, ma io non ho dormito quasi per niente, la mente troppo occupata per riuscire a chiudere occhio. Occupata a rivivere l'incidente di tre anni fa. Occupata a pensare ad un modo per tranquillizzare mia madre. Occupata a ripensare all'incontro non proprio fortunato con il ragazzo della metropolitana.
Scendo dal letto e cammino tranquillamente fino al bagno, stando rasente alla parete, sfiorando il muro familiare con la punta delle dita. Vivo con Vicki da quasi due anni, ho avuto tempo di abituarmi a quella casa. Di abituarmi al parquet, ai quindici scalini ricoperti di moquette, al cassettone in salotto - al quale all'inizio andavo sempre a sbattere.
Ci si abitua a tutto, prima o poi.
Tiro un sospiro e regolo la temperatura dell'acqua della doccia, per poi buttarmi sotto il getto d'acqua tiepida. Cerco il mio shampoo all'albicocca e il bagnoschiuma alla vaniglia portandomi davanti al naso un flacone alla volta, sorridendo fiera quando finalmente li trovo.
Ci vuole pazienza, ad essere ciechi. Davvero molta ma molta pazienza.
Non so quanto tempo passo sotto la doccia, ma tornando in camera mia avvolta in un asciugamano, sento una voce canticchiare dalla cucina, segno che Victoria si è svegliata. Sorrido, alzando lo sguardo al cielo, anche se ovviamente non posso vedere.
Ho continuato a farlo anche dopo l'incidente. Era una delle mie espressioni più carine a dire il vero, mi sarebbe dispiaciuto disfarmene solo perché non posso più vedere.
Recupero a tentoni l'intimo dal cassetto del comò. Ne saggio la consistenza tra pollice e indice. È l'unico modo che ho per riconoscere i miei vestiti. Ho tra le mani un completino di pizzo... passo a sfiorare l'etichetta. Mia madre ci ha ricamato sopra l'iniziale del colore. Su ogni mio capo di abbigliamento. È stata adorabile, bisogna ammetterlo.
«Pizzo nero», borbotto tra me e me, indossandolo.
Passo all'armadio. Riesco a recuperare senza troppa fatica un paio di jeans scuri, aderenti, un paio di converse bianche e due camice. Le sfioro, ancora attaccate alle stampelle, senza però riuscire a capire che camice siano.
«Hai intenzione di aiutarmi?», chiedo con un sorriso appena accennato, sentendo la presenza della mia migliore amica sulla soglia della mia camera da letto. La sento ridere e avvicinarsi. La sento frugare nel mio armadio, alla ricerca di qualcosa. «Vic, andiamo...», le dico ridendo.
«Mettiti questi», mi dice lasciandomi un bacio su una guancia e mettendomi tra le mani una canottiera bianca e un cardigan celeste, di flanella. Adoro la mia migliore amica. Il celeste è il mio colore preferito - o almeno lo era - e in più adoro quel cardigan, è un regalo del mio migliore amico, Louis.
Louis William Tomlinson. Castano chiaro, occhi celesti. Da quel che mi ricordo, ovviamente. Alto più o meno quanto me, muscoloso il giusto e - sempre da quello che mi ricordo - un gran bel culo.
E se devo fidarmi di Victoria, ha davvero un bel culo, ancora adesso.
È il nostro vicino di casa, era il mio vicino quando abitavo ancora con i miei ed è sempre stato il mio migliore amico, da quello che mi ricordo, nonostante sia più grande di me di tre anni. È una specie di fratello maggiore che non ho mai avuto, mettiamola così.
Mi infilo con calma i vestiti che mi ha recuperato Vicki, e scendo le scale tranquillamente. Ormai non è più un problema fare le scale e muovermi in quella casa. Mi sono abituata. Certo, all'inizio era difficile, penso di essere caduta da quelle scale un centinaio di volte, forse di più. Ero frustrata, piangevo in continuazione dal nervoso. E ovviamente ero piena di lividi, anche se non li posso vedere.
Victoria è stata la mia ancora di salvezza, anche in questo senso.
Mi tira su da ogni caduta, cucina per me, mi aiuta a vestirmi se non trovo qualcosa. All'inizio mi aiutava a fare la doccia, o almeno a trovare shampoo e bagnoschiuma. Mi aiutava a fare le scale, usciva con me quando volevo uscire, mi accompagnava dappertutto. Non voleva che venissi presa in giro, intimoriva chiunque mi rivolgesse uno sguardo compassionevole... è la migliore amica ideale, quella che tutti vorrebbero come propria.
«Vic, io esco», dico aprendo il secondo cassetto del mobile all'ingresso e recuperandone il mio bastone bianco. Quello apposta per i non vedenti, per capirci. Un attimo, e sento il rumore dei tacchi della mia migliore amica muoversi veloce verso di me, come se mi stesse correndo incontro. Sospiro, quando sento le sue mani sulle spalle. «Non puoi impedirmi di andare a fare un giro», le dico con un sorriso.
«Posso, e lo sai».
Sbuffo, smettendo di sorridere. «Vado solo a prendere un po' d'aria, Victoria», le dico ruotando gli occhi. Altra espressione facciale che mi è rimasta da quando vedevo. Sento la mia migliore amica sorridere, e la sento avvicinarsi per darmi un bacio su una guancia. Sento il suo odore riempire l'aria intorno a me, e so di aver vinto.
Posso uscire un paio d'ore senza che mi stia col fiato sul collo.
«Grazie, mamma», le dico con un sorriso uscendo di casa, seguita dalla sua risata.
Due passi. Tre scalini. Quindici passi lungo il vialetto.
Sento il rumore di uno skateboard. Un rumore a cui ormai mi sono abituata. Il figlio dei vicini. Penso che ci viva su quello skateboard. E so per certo che è caduto anche oggi. Lo sento dall'odore di sangue che mi fa storcere il naso. «Ciao, Heidi!», mi saluta superandomi sulle quattro ruote di quell'aggeggio che tanto ama. Gli sorrido e lo saluto con la mano, continuando poi per la mia strada.
Giro a destra. Quindici passi e c'è una buca.
So la strada a memoria ormai.
So come arrivare alla fermata della metro, solo seguendo i rumori e gli odori. So che i gradini da scendere per arrivare alla metropolitana sono ventisei. E so che gli ultimi due sono rovinati sulla destra. E una volta scesa sottoterra, sempre sulla destra si posiziona Joe, un ragazzo che suona il violino.
«Buongiorno, bionda», mi saluta quando poco meno di un'ora dopo gli passo davanti. Senza intoppi. Sorrido, prendendo qualche moneta dalla tasca del cappotto. Due sterline, le sento sotto le dita ormai allenate. Allungo la mano e le lascio cadere nella custodia del violino. «Grazie piccola, cosa ti suono?».
Scoppio a ridere. Bionda. Piccola. Adoro quel ragazzo, sul serio.
Anche se non l'ho mai visto.
«Radioactive, ti va?», gli chiedo inclinando la testa da un lato. Lo sento scrocchiare le dita, per poi iniziare a suonare quello che gli ho chiesto, mentre ricomincio a camminare, ridendo spensierata.
Amo quella canzone.
La musica mi ha salvata. Quando ho smesso di vedere, e praticamente anche di vivere per un periodo, lei c'era. Pensavo di aver perso tutto, ogni possibilità. Poi ho imparato ad ascoltare. È stato quello che mi ha salvata, ascoltare.

Blind love. [Zayn Malik]Where stories live. Discover now