17. Fogli di carta fissi alle porte

44 9 46
                                    

Un suono stridulo e cadenzato arriva alle mie orecchie come un coltello sottile e affilato che mi trapassa la testa ripetutamente. I timpano chiedono pietà a gran voce, le tempie dolenti non smettono di pulsare al ritmo di una musica che si ripete ogni cinque minuti.

A occhi chiusi tasto un comodino che non riconosco, non è quello della mia stanza, e ne ho la certezza quando la mano entra in contatto con il legno freddo e spoglio di un tavolo che non sa cosa significhi il calore e il profumo di pagine stampate posate su di esso. Tastarlo in ogni angolo è inutile: il suono proviene dal lato opposto rispetto a quello in cui mi trovo.

Apro le palpebre con riluttanza e allungo il braccio verso l'altra metà del letto nella speranza di riuscire ad afferrare il telefono che non la pianta di strillare e vibrare; con Eva nel mezzo ogni mio sforzo viene vanificato dal suo corpo immobile. Le muovo il fianco con il ginocchio ma ricevo in risposta un mugugno sognante.

«Nella mia vita precedente devo aver combinato parecchi guai per essermi meritata una rossa con il sonno pesante» sussurro a me stessa alzando la voce mentre pronuncio le ultime parole. Lei continua a non dare cenni di vita e, ricordando i più fastidiosi insegnamenti di Celeste, credo che l'unica soluzione sia quella di svegliarla nel modo più odioso che conosco, ma prima devo spegnere la sveglia a tutti i costi.

Mi alzo dal letto con riluttanza, il corpo è pesante come un macigno, e trascino i piedi sul parquet tiepido fino ad afferrare il telefono, ora in pausa.

La piacevole sensazione di silenzio e tranquillità di una giornata di neve invernale si impadronisce dell'ossigeno della stanza. Tra le mie mani un lento vibrare ricomincia, riportando le quattro mura all'interno di un caotico frastuono, e, sebbene ne sia decisamente infastidita, le iridi color pece dei miei occhi non possono far altro che posarsi sull'orario.

Cazzo, penso.

«Cazzo!» Urlo in preda a una scarica di agitazione che mi fa cadere in un baratro di panico.

«Eva, svegliati! Sono le dieci e siamo in ritardo!» Provo a strattonarla più che posso mentre, con tutta l'aria che ho nei polmoni, le grido nell'orecchio. Le provoco un lieve e impercettibile lamento.

«Non farmelo fare, Smith! Ti concedo due secondi per aprire gli occhi, altrimenti...» non conto, non le do il tempo di scoprire quale sia il piano a cui ho pensato. Non dovrei farlo, se penso a tutte le volte che Celeste ha usato questa tecnica con me, mi sale il nervoso.

Afferro l'angolo del piumino, espiro profondamente e tiro il tessuto fino a scoprire completamente Eva, piedi compresi.

«Questo non dovevi farmelo, Davis!» La voce della rossa è ruvida, tagliente, e molto incazzata. Occhi assonnati di un verde smeraldo mi inceneriscono a ogni sguardo.
Sei stata proprio crudele, Amelia.

«Sei crudele, Davis» piagnucola come una bambina.
«Non sei la prima a dirmelo questa mattina» la vocina nella mia testa ci ha già pensato.

Sento qualcosa di morbido impattare contro la mia faccia cogliendomi completamente alla sprovvista. Tra le mani ho il cuscino con cui ha dormito Eva questa notte; questo è il genere di gesti che mi fanno alzare gli occhi al cielo, sono esasperanti.

«Allora, perché mi hai svegliato?» chiede lei con gli occhi da cerbiatto.
«Sono le dieci e siamo in ritardo per la prima lezione dell'anno scolastico. Mi avevi promesso...» non faccio in tempo a finire la frase che lei si lancia sul materasso e si avvolge in un bozzolo di coperte.

Si intravedono unicamente le sue iridi vispe e divertite, poi la sento dire qualcosa: «Davis, sei tu quella che sta facendo tardi. Io sono al secondo anno e per oggi non ho lezioni in programma».

ANNI LUCE DI DISTANZAWhere stories live. Discover now