II.

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Il sovrano maestro della casa del re avanzò fino all'orlo della fossa, dove le spoglie del re erano già state collocate.

Vi gettò il bastone intagliato, insegna della sua carica.

«Le roy est mort! Vive le roy!»

Un coro di cento voci ripeté: «Le roy est mort! Vive le roy!» Il grido andò a disperdersi nelle navate di Saint-Denis.

Centinaia di ceri accesi riverberavano nelle cappelle, proiettando le loro luci sulle tombe dei re di Francia, dove la corte stava assistendo alla sepoltura di Jean II.

Il principe dalla pelle esangue fu sul punto di cadere svenuto.

Quel giorno il suo regno era iniziato.

Per la gente di Parigi e i cortigiani del Palais de la Cité però, quel giovane era solo uno sgorbio pallido. Anche per suo padre re Jean lo era, ma almeno era intelligente e assennato, quando voleva lui.

«Le roy est mort! Vive le roy!» intonò di nuovo la massa di nobili, cortigiani e ufficiali. Il giovane re lanciò uno sguardo oltre le teste incappucciate a lutto dei monaci: sull'altare svettava l'orifiamma, l'insegna militare che accompagnava l'armata di Francia in battaglia. "Si è mai visto un re che non è sceso in guerra con l'orifiamma tra le mani?" Oltre che essere pallido, Charles si ricordò che era anche la brutta copia di un autentico sovrano.

«Le roy est mort! Vive le roy!» Fu l'ultimo grido, poi il silenzio tornò a vegliare nella necropoli reale

Un fiume di prelati, cortigiani, ufficiali si aprì al suo passaggio, esibendosi in profondi e untuosi inchini. «Altezza» «Sua Maestà» lo chiamavano, poi quando voltava loro le spalle diventava uno sgorbio pallido. Charles, zoppicante e inquieto, si trascinò lontano, nascondendosi nel bosco di colonne che scandivano il deambulatorio. Le candele e le statue erano le uniche presenze. Almeno loro non lo giudicavano.

Suo padre Jean era alto, forte e aveva amato più di ogni altra cosa giostrare, organizzare tornei e mischie, che ci partecipasse o no. Charles nemmeno sembrava essere suo figlio: era pallido e smilzo, aveva gambe troppo corte e braccia troppo lunghe, e per finire in viso non era una bellezza magnifica. Non era forte e vigoroso quanto lo era stato suo padre. Fin dalla giovane età era sempre stato di costituzione fragile e poco avvezzo ad attività come la scherma. Re Jean aveva insistito affinché suo figlio imparasse a combattere con la spada, ma lui non era mai riuscito a padroneggiare quell'arma. A diciotto anni, quando si esercitava con i suoi scudieri, molti più giovani di lui, veniva sempre sconfitto e piuttosto che fortificarlo, quegli insuccessi lo demoralizzavano. Aveva combattuto otto anni prima a Poitiers, schierandosi in prima linea ma tuttavia aveva fatto una figura miserrima, dal canto che alla fine di quella giornata suo padre il re era stato ridotto a prigioniero dagli inglesi e Charles si era salvato in un modo ignobile, passando alla storia insieme a tutti gli altri francesi come gli zimbelli della cristianità. Tutto ciò avvenne prima che l'arsenico intaccasse ulteriormente il suo fisico già debilitato. Aveva perso l'utilizzo del braccio sinistro e della mano destra e con gli anni, anche la gotta aveva fatto la sua apparizione. Certi giorni, si trascinava con un bastone, zoppicante per gli accessi di gotta e, nel peggiore dei casi, era costretto a rimanere a letto, mentre mastro Gervais gli somministrava qualche droga per calmare il dolore, sottostando alle bizzarrie dei medici di corte. Era un divertimento per la gente e i cortigiani del Palais che lo chiamavano singe. [1]

Quel ragazzo aveva solo ventisei anni.

Tra il bosco di colonne, nella fiumana come il nerofumo che affollava la navata centrale, scorse sua moglie, il velo buttato dietro la testa. Parve scrutarlo per un fugace battito di ciglia e dopodiché gli voltò le spalle dirigendosi alla porticina del transetto di mezzogiorno che immetteva al chiostro.

LUCE DI RAME. La Guerra È DichiarataWhere stories live. Discover now