VI.

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Merri, che giaceva al suo fianco, sembrava stanco, ma Yves non poteva permettergli di riposare nel suo letto. Aveva paura di addormentarsi a sua volta e sapeva che, se lo avesse fatto, qualcuno avrebbe fatto fare a entrambi la stessa fine di maestro Wis. O anche peggio.

«Puoi andartene» disse, girandosi sul fianco. Si coprì fino al collo col lenzuolo, dandogli le spalle.

Merri sospirò. Era abituato e sapeva che doveva muoversi e sparire nella sua stanza prima che i raggi dell'alba potessero filtrare dalle finestre. Si mise a sedere e poi si alzò. Raccolse gli abiti sparsi in giro e si rivestì in fretta. Ma prima di andarsene Merri, il suo scudiero - o meglio, il suo amante - aggirò il giaciglio. Si inginocchiò di fronte a Yves e gli diede un lento bacio sulla fronte. Yves spalancò gli occhi e non riuscì a dire nulla, anche se era abituato a quel tipo di gesti d'affetto. Merri dopodiché si rialzò e sparì oltre la soglia richiudendo la porta.

Rimasto solo e insoddisfatto, decise addormentarsi in fretta. Di tempo ce n'era poco, ma soprattutto doveva essere ben riposato per ciò che lo attendeva. Avrebbe desiderato non risvegliarsi più, o almeno in un altro luogo, come un'altra persona.

Ma l'alba arrivò troppo in fretta quella mattina.


*


Spirali di fumo si contorcevano e salivano dai villaggi fra le verdi campagne della Somme.

I navarrini erano arrivati.

Quelle e altre spirali di fumo avevano avvertito gli armigeri, appollaiati come doccioni sulle solide mura di Amiens, per dare l'imminente e atteso segnale d'allarme. La città era asserragliata da due giorni. Nessuno, gente, carri con merci non poteva fare ingresso né uscire fino al momento in cui il conte di Piccardia e i suoi signori non avrebbero cacciato il nemico dalle terre della Somme e dell'Oise.

E così avrebbero fatto.

Fra questi signori, in sella al proprio colossale destriero inquartato in una gualdrappa fiammeggiante, Eustache Beaumurais stava sfilando alla testa dei suoi uomini e alfieri che quella mattina si erano lasciati i torrioni di Boves alle proprie spalle.

Ad affiancare il signore di Boves, ovviamente, c'era Denis. Appena dietro di lui, Dijome, il suo scudiero, reggeva tra le mani l'ingombrante elmo pentolare, di quelli che venivano esibiti sulle teste dei cavalieri ai tornei o in occasione di parate. Da due generazioni passava di padre in figlio ed Eustache lo aveva donato al suo primogenito. Aveva una fenice nascente dalle ali dispiegate come cimiero, rossa e gialla, che risorgeva da una corona di fiamme, posata su di un cercine di stoffa rosso e oro che tratteneva la stoffa rossa degli svolazzi, lunga e dai bordi frastagliati che scendeva all'indietro come la coda della fenice Le sue dimensioni permettevano di indossarlo sopra il bacinetto privato della visiera, riducendo tuttavia il campo di battaglia a due sottili fessure orizzontali. Yves, che preferiva vedere meglio i suoi nemici così da guadagnarsi qualche anno di vita in più, aveva un semplice bacinetto anche perché un elmo da parata come quello di Denis era degno soltanto d'un figlio cadetto.

Più dietro, molto più dietro, con aria corrucciata e meditativa, cavalcava colui che quel giorno sarebbe divenuto l'orgoglio del proprio padre. O così almeno credeva.

Niente aveva fermato Yves, nemmeno le ustioni che bruciavano ancora sotto i suoi indumenti e la rabbia che gli divampava nel petto. Non poteva rinunciare di dimostrare realmente quanto valeva, soprattutto in un'occasione simile offertagli su un piatto d'argento. Cercò di mantenere il sangue freddo e mascherare il dolore sotto una faccia inespressiva.

LUCE DI RAME. La Guerra È DichiarataDove le storie prendono vita. Scoprilo ora