Capitolo 11 - Ansia.

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Non sapevo quale fosse il motivo che spingesse mio fratello a non presentare la sua ragazza ai nostri genitori, di solito le sue ragazze le portava tranquillamente a casa, per quella invece non sembrava voler fare lo stesso. Non avevo intenzione di chiedergli nulla però, immaginavo avesse delle buone motivazioni, ma in quel caso non poteva più pensare che mamma e papà avrebbero apprezzato la presenza di Sam. Il discorso sull'omosessualità non si concluse poi lì a cena, si protrasse oltre per tutta la serata, e anche il giorno dopo. Era domenica, i miei genitori non lavoravano, ma mio padre uscì tranquillamente come ogni mattina, mia madre invece rimase in casa con una sua amica. La donna in questione era poco più grande di lei, aveva due figli, la seconda era più piccola di me. Aveva 16 anni, e quando oltrepassai il salotto per andare in cucina e bere un po' d'acqua, le sentii parlare proprio di lei e della preoccupazione di sua madre a causa di quei nuovi vicini.
«La mia bambina è ancora in fase di sviluppo, avere queste persone attorno non le farà per niente bene.» disse la donna in tono decisamente preoccupato, ma io non capivo di cosa avesse paura.
«Qual è il vostro problema?» chiesi alla donna fermandomi in salotto.
Lei era seduta su una piccola poltroncina rosa, mia madre era seduta sul divano dello stesso colore. Non mi era mai piaciuto quell'arredamento, era troppo antico per i miei gusti. Ma a mia madre piacevano gli orpelli, le carte da parati floreali, le tende in pizzo, il mobilio in legno e tutte quelle cose tipiche dell'800. La donna mi guardò subito, il suo sguardo era confuso, mia madre invece si sorprese. Fino a quel momento non mi ero mai esposta con dei vicini, non avevo mai fatto domande né dato risposte lunghe, il massimo che facevo era un veloce saluto, ma quando potevo evitare non facevo nemmeno quello.
«Penso sia ovvia la mia paura, non voglio che la mia bambina diventi come loro.» rispose lei.
«La sua bambina non deve compiere 17 anni il mese prossimo?» continuai io lentamente senza sapere cosa mi stesse prendendo, e mia madre probabilmente pensava lo stesso.
«Certo, ma 17 anni non sono così tanti.» ribatté la donna con fare protettivo, fin troppo in effetti.
«A quanto pare nemmeno 50 lo sono.» replicai in tono più basso, quasi sovrappensiero.
Solo mia madre mi capì, lo notai dal suo sguardo contrariato. Quel mio lato premeva dentro da anni, spingeva violentemente per uscire fuori. Mi avevano sempre dato della ragazzina per via della mia timidezza, del fatto che non mi esponessi tanto, quando poi mi sentivo più matura di tanti cinquantenni. "Non parlare" non era sinonimo di stupidità, né di essere infantile, anzi spesso erano gli altri a dimostrare il contrario parlando a sproposito e dicendo assurdità.
«Come?» chiese la donna cercando di capire cosa avessi detto, ma mia madre non voleva che ripetessi la mia frase.
«Niente, niente.» disse lei velocemente. «Non ascoltarla, non sa quello che dice.»
«Certo...» commentò la donna con fare sospetto, ma non aveva voglia di chiudere lì il discorso, si sentiva superiore e voleva che gli altri la pensassero come lei. «A te non danno fastidio?»
«Non quanto me ne diate voi.» avrei voluto rispondere, ma non avevo abbastanza coraggio.
Strinsi i pugni, pensai a Sam, pensai a quello che provavo per lui e il mio cervello cercò un modo per dire ciò che pensavo senza espormi troppo.
«Direi di no.» risposi semplicemente.
«No?» continuò lei con fare sorpreso.
«Sono persone come noi, perché dovrebbero darmi fastidio?» chiesi ingenuamente, le persone come quella donna non la pensavano per niente in quel modo.
«Persone come noi?!» ripeté la donna con un sorriso pieno di compassione che mi fece solo più rabbia. «Oh tesoro...» commentò lei. «Quegli esseri non sono per niente come noi, sono dei pervertiti malati e non sanno nemmeno di esserlo. Io voglio aiutarli.»
«Lei vuole aiutarli?» le chiesi in tono confuso.
«Si, le persone malate vanno aiutate...» rispose lei con un'ingenuità nel tono che mi sorprese alquanto, non capivo se fosse una finta ingenua o se sul serio credesse a tutte quelle stronzate, ma il peggio lo dovevo ancora sentire. «Come quei trans...» continuò lei urtandomi ancora di più sui nervi.
"Quei trans", sentii spesso quell'espressione, e chi lo diceva non si riferiva a loro come persone ma bensì ad esseri inferiori. Mi diede sempre un sacco fastidio la mancanza di rispetto che quelle persone avevano per la comunità queer, soprattutto per le persone trans, e in quel momento mi infastidì ancora di più. Quasi sicuramente il motivo era Sam. Avevo sempre provato rabbia sentendo discorsi di quel tipo, ma in quel momento avendo Sam nella mia vita mi sentivo ancora di più in dovere di fare qualcosa. Non avevo ancora abbastanza coraggio però, strinsi i pugni lungo il mio corpo, mi morsi l'interno di una guancia provando a contenere la rabbia, ma quella donna continuò a parlare.
«Loro sono i primi che dovrebbero farsi curare, non è normale dire di essere di un altro sesso, come puoi dirlo se sei effettivamente in un determinato corpo?» commentò lei. «Non è normale.» ripeté. «Dio non ti ha fatto nascere con un determinato corpo per poi fartelo deturpare in quel modo.» aggiunse.
La facilità con cui persone come quella donna mettevano in mezzo Dio per far prevalere le loro idee era sconvolgente, dicevano che Dio era buono, che amava tutti i suoi figli, eppure credevano di far sentire in colpa gli altri per cose che pensavano solo loro. Io non ero religiosa, feci la comunione e la cresima costretta dai miei, ma non assecondavo più le loro idee da anni. Né tantomeno mi sarei permessa di tirare in ballo una cosa simile per far valere le mie idee.
«Lei non è normale.» sbottai dopo lunghi e interminabili secondi di agonia.
L'interno della mia guancia l'avevo torturato abbastanza, se avessi continuato mi sarei fatta solo male. Mia madre e quella donna mi guardarono con uno sguardo piuttosto sorpreso, mia madre era quella più confusa tra le due, non mi aveva mai visto parlare in quel modo nemmeno tra le mura della nostra casa. Avevo sempre tenuto i miei pensieri per me, le mie idee non le avevo mai esposte perché sentivo che in quella casa non sarebbero mai state accolte, e in quel momento le confermai solo di più.
«Cos'hai detto?» mi chiese quella donna in tono nervoso.
«Manuela, adesso basta, finiscila.» disse mia madre alzandosi in piedi.
Io avevo altro da dire, in testa avevo così tante parole che mi stava esplodendo il cervello, ma non dissi nulla. Mi sentivo ancora piccola e impotente davanti a persone come quella donna, e ce n'erano così tante che l'idea di affrontarle tutte mi spaventava. Non mi ero ancora esposta, non avevo ancora fatto coming out, e la paura che sentivo non me lo avrebbe mai fatto fare.
«Vai subito in camera tua.» continuò lei in tono duro, ma io non avevo intenzione di assecondarla.
«Ci vado, ma solo per cambiarmi. C'è troppa ignoranza in questa casa.» ribattei lentamente sentendo il mio viso in fiamme.
La rabbia e la paura avevano un brutto effetto su di me, fuse insieme mi facevano essere del tutto fuori controllo, anche per me stessa.
«Ma come ti permetti?» mi chiese la donna nervosamente, ma io non l'ascoltai.
«La lasci perdere, mia figlia ha 22 anni ma è ancora tanto ingenua.» rispose mia madre non appena uscii dal salotto, ma io non ascoltai nemmeno lei.
Se essere come me significava essere ingenue allora preferivo esserlo per sempre piuttosto che essere come loro, cattive e ignoranti, soprattutto ignoranti. Mi avviai subito verso la mia camera, in cui mi cambiai velocemente, presi la mia macchina fotografica, il cellulare e uscii di casa. Non appena misi piede fuori dal mio portone cercai il numero di Sam e lo chiamai. Avevo bisogno di parlare con qualcuno, di smaltire tutta la rabbia che provavo, e Sam era l'unica persona che sapevo mi avrebbe fatto stare meglio.
«Ehi principessa, tutto bene?» mi chiese dopo appena due squilli.
Sentire la sua voce mi fece subito battere il cuore, sentire il suo tono allegro e la sua frase mi fece sorridere all'istante. Sapeva che la domenica mi piaceva dormire fino a tardi, che non avevo mai grossi programmi, e di conseguenza era sorpreso di sentirmi tanto presto.
«Si, tutto bene.» mentii io, non mi andava di farlo preoccupare per quel mio semplice nervosismo. «Ti va se ci vediamo?» gli chiesi.
Immaginavo che sentirmi proporre una cosa simile lo avrebbe sorpreso molto, e che ne sarebbe stato anche felice dato che di solito era lui a proporre tutto, ma non fu così.
«Mi piacerebbe molto...» disse in tono lento dopo brevi istanti di silenzio. «Solo che oggi non posso, ho una cosa importante da fare e stasera lavoro.» mi spiegò con calma, sembrava dispiaciuto.
«Oh va bene.» fu l'unica cosa che riuscii a dire.
Mi fermai per strada, su un marciapiede poco distante da casa mia, i miei piedi mi stavano portando verso casa sua ma se lui non poteva vedermi allora era inutile dirigermi lì. Di conseguenza non sapevo più dove andare.
«Mi dispiace Manu.» continuò lui sentendo il mio tono triste.
«Non fa niente, non preoccuparti.» ribattei io velocemente cercando di cambiare tono, ma ero palesemente triste e non sapevo fingere così bene. «Ci sentiamo appena puoi allora.» aggiunsi poco prima di salutarlo e staccare la telefonata.
Mi sentivo una stupida, mi ero sentita così bene appena avevo sentito la sua voce, eppure in quel momento stavo tanto male. Avevo affidato a lui la mia serenità, mi ero finalmente lasciata andare, eppure avevo preso una porta in faccia. Probabilmente stavo esagerando, in fondo mi aveva detto di no solo per quel giorno, ma avevo così tanto bisogno di lui che mi sentii messa da parte. Sam provò a richiamarmi, ma io non gli risposi, mi sentivo troppo stupida per dire qualcosa di sensato. Lentamente i miei piedi ritornarono a camminare, ma presero la direzione opposta a casa sua. Mi avviai verso il centro della città con la mia macchina fotografica appesa al collo e nessuna meta in testa. Subito dopo sentii il mio cellulare vibrare di nuovo, ma lo fece per meno tempo rispetto alla telefonata, quello fu solo un messaggio.
«Mi farò perdonare!» mi scrisse Sam.
In quel momento mi sentii subito in colpa, lui non aveva nulla da farsi perdonare, ma nonostante questo non gli risposi ugualmente. Continuai a camminare col mio cellulare in mano, senza far troppo caso alla strada, e all'improvviso sbattei contro una persona.
«Che diavolo...» commentò una voce femminile.
Io alzai subito il mio sguardo sulla persona in questione, per fortuna avevo una stretta ben salda sul cellulare altrimenti lo spavento me lo avrebbe fatto mollare e sarebbe caduto a terra, rompendosi inevitabilmente, ma così non fu.
«Manu?» mi chiese quella ragazza.
«Oh ciao Laura.» la salutai io con l'ansia che mi salì di getto.
Incontrare qualcuno che conoscevo, per strada e senza appuntamento, mi metteva sempre una certa ansia. Non sapevo come gestire la situazione, ancora di più in quel momento dato che non avevo voglia di vedere nessuno e lei non era sola. Non mi ero accorta di star passando giusto davanti ad un bar che frequentai spesso con lei, un bar in cui ci fermavamo spesso per fare colazione. Lei uscì non appena arrivai lì davanti e dopo di lei uscirono altre due ragazze.
«Ehi Manu.» mi salutò una di loro, Michela, la più grande del gruppo.
«Cosa ci fai qui?» mi chiese Giovanna, colei che amava i capelli colorati e la musica a tutto volume, infatti aveva delle cuffiette sempre dietro e i capelli turchesi, ma si stancava quasi subito di un colore. «Pensavamo non ti sentissi bene.» aggiunse lei alzando lo sguardo su Laura che sembrava quasi in difficoltà.
Quella situazione mi fece capire che Laura aveva mentito per me, perché magari le avevano chiesto di me e lei sapeva che non mi andava di uscire, e io provai ad assecondare le sue bugie anche se non le conoscevo.
«In effetti è così, sono uscita un po' per prendere una boccata d'aria, ma torno subito a casa.» dissi facendo un passo indietro.
«Eh no, cara.» mi bloccò Michela prendendomi sotto braccio. «Ormai sei fuori e ci resti.»
«Ma non mi sento benissimo.» ribattei io debolmente.
«Oh andiamo, non ci vediamo da un secolo, abbiamo tante cose da dirci.» replicò Giovanna, ma non era per niente vero.
Io non avevo nulla da dire a loro, erano loro ad avere tanto da dirmi invece. Passammo praticamente quasi tutta la giornata fuori, perché con loro era così, sapevi quando uscivi ma non quando tornavi. E io passai tutto il tempo in silenzio e con un nodo alla gola. Andammo in giro per il centro commerciale in mezzo ai negozi e ad un sacco di persone, la domenica sembravano passarla tutti allo stesso modo. Io cercai di calmare la mia ansia ma non ci riuscii per niente. Le mie amiche mi aggiornarono sulle loro vite, mi parlarono dei loro progetti, del lavoro che andava alla grande e delle loro relazioni che sopravvivevano nonostante tutto. Avevano entrambe un ragazzo, avevano entrambe un lavoro fisso e una paga decente, e mi chiesero come mai non avessi ancora trovato nulla. Io per tutto il tempo fui in imbarazzo, quei discorsi li detestavo. Non ero mentalmente pronta per affrontare un colloquio di lavoro, non ero per niente sicura di me, e non sapevo cosa avrei potuto fare. Non avevo idee, nessuna, e loro non mi aiutarono di certo. Dicevano che tutto dipendeva da me, che dovevo "svegliarmi", che in quel modo avrei solo perso tempo e sarei rimasta a casa dei miei per sempre. "Loro lo dicevano per me", questa fu la frase che mi ripeterono più spesso quel giorno, ma l'unica cosa che fecero fu farmi stare peggio di quanto non stavo già. Quel giorno mi sentii ancora più piccola e insignificante, ancora più inutile del solito. Volevo scappare, andare via, ma verso sera ebbero la brillante idea di fermarsi in una pizzeria della zona.
«Io non posso fermarmi, devo tornare a casa.» dissi alle ragazze provando a scappare di nuovo, ma fallii miseramente anche in quel momento.
«Perché?» mi chiese Giovanna.
«Hai un appuntamento con il letto?» commentò Michela prendendomi in giro.
«N-no.» dissi in tono nervoso. «Devo solo andare, non ho avvisato mia madre che avrei fatto tardi.»
«Beh puoi farlo adesso.» ribatté Michela.
«Si dai, tu chiamala, noi andiamo a prendere un tavolo.» commentò Giovanna portandosi dietro Michela, e lì fuori con me rimase Laura.
«I-io devo andare.» ripetei a quest'ultima.
«Lo so, lo capisco.» rispose lei, ma non sapevo se lo capisse sul serio.
«Non so come fai a sopportare i loro discorsi ogni giorno.» commentai lentamente.
«Sono nostre amiche.» replicò Laura come se fosse una cosa semplice.
«Sono cattive.» ribattei io in tono più duro.
«Provano solo a farti sciogliere un po', tu sei sempre sulle tue.» continuò lei con fare quasi offeso.
«Ci sarà un motivo se lo faccio.» dissi col suo stesso nervosismo.
«E quale sarebbe?» mi chiese dopo un breve sospiro.
Sembrava stanca, esasperata di quei discorsi sulle mie ansie, e io non avevo intenzione di continuare a parlargliene.
«Lascia perdere, non capiresti.» dissi lentamente. «Io vado via, non rimango.» aggiunsi facendo un passo indietro.
«No dai, resta qui, cosa dico alle ragazze?» domandò lei come se fosse l'unica cosa di cui le importasse.
«La verità, che stavo troppo male per rimanere.» dissi semplicemente prima di voltarmi e allontanarmi da lei.
Non avevo voglia di spiegarle cosa non andava in me, non avevo voglia di dirle perché stavo male, tanto nemmeno avrebbe capito. Anche lei come me aveva voglia di cambiare vita, di lasciare quella città, ma lei non aveva alcun problema a stare in mezzo alle persone, nel confrontarsi con gli altri, io invece avevo un'ansia assurda già appena varcavo la soglia di casa. In quel momento la mia ansia si fece sentire più forte, il nodo alla gola era così stretto che faticavo anche a respirare, sentivo il cuore martellarmi nel petto e gli occhi che si riempivano di lacrime. L'unica cosa che riuscivo a fare era camminare, correre quasi, verso casa mia. Non era il posto che mi faceva stare meglio, ma le quattro mura della mia camera erano un posto sicuro per la mia mente e in quel momento ne avevo un disperato bisogno. Quella giornata fu una tortura dall'inizio alla fine, o quasi, in fondo non era ancora finita. Tenni il passo svelto e lo sguardo basso, e di conseguenza diedi spallate a chiunque in quella serata tanto trafficata di gente, o perlomeno a me sembrava tanto trafficata. Avevo sempre evitato il centro città la sera, e sapevo che la domenica era anche peggio. Alla mia sinistra c'era la strada, anch'essa alquanto trafficata di auto, ma una in particolare sembrò seguirmi per ogni stradina che prendevo. Suonò il clacson un paio di volte ma io non alzai mai la testa, piuttosto accelerai il mio passo sentendo la paura prendere il sopravvento. Avevo così tanta paura che iniziai a prendere strade a caso, mi infilai velocemente in un vicolo stretto e quando fui al centro mi voltai indietro per capire se quell'auto mi stesse ancora seguendo, ma non fu così. Quel vicolo era a senso unico, poco illuminato e per niente trafficato. Da una parte mi fece ancora più paura, ma dall'altra mi sentii al sicuro da sola. Non capivo bene dove fossi ma mi voltai di nuovo e tornai ad avanzare, peccato che non appena arrivai alla fine di quel vicolo l'auto che mi stava seguendo si fermò davanti a me facendomi prendere un colpo. Io mi bloccai subito, il cuore mi salì in gola e i miei piedi iniziarono lentamente a muoversi all'indietro. Quando vidi lo sportello del guidatore aprirsi mi voltai subito e tornai a camminare lontano da quell'auto, ma una voce mi fermò.
«Ehi Manu, fermati. Sono solo io.» mi disse quella voce, la voce di Sam.
Mi fermai subito, non appena lo sentii. Il mio cuore tornò al suo posto ma non smise mai di martellarmi nel petto, sentii gli occhi riempirsi di lacrime e la paura lasciare piano piano ogni parte del mio cervello, con lui non ne avevo.
«Manu...» mi chiamò Sam.
Il suo tono era preoccupato, ma in quel momento lo sentii molto vicino a me. Sentii anche una mano sulla mia spalla sinistra e con calma mi voltai.
«Piccola, cosa succede?» mi chiese allungando quella sua mano verso il mio viso, ma io non gli diedi il tempo di toccarmi che subito mi fiondai tra le sue braccia.
Mi strinsi forte a lui, col mio viso nascosto contro il suo collo. Sentii le sue braccia ricambiare la mia stretta, sentii le sue labbra stamparmi piccoli baci sulla mia spalla, e lentamente la mia ansia sparì. Non volevo ammetterlo a me stessa ma avevo bisogno di lui per stare bene. Restammo abbracciati in quel vicolo al buio per qualche minuto, in silenzio. Stare in quella stradina isolata non mi faceva più paura, essere fuori casa non mi metteva più ansia, lei e la mia paura svanirono del tutto con Sam, con quell'abbraccio. Quando mi staccai non avevo più nemmeno gli occhi lucidi, stavo bene, ero felice che fosse con me.
«Che cosa ci fai qui? Pensavo dovessi lavorare.» gli dissi con un mezzo sorriso.
«Sono andato via prima, avevo voglia di vederti.» rispose Sam con un sorriso più convinto e una sua mano che accarezzava piano una mia guancia.
«Davvero?» continuai piuttosto sorpresa.
«Certo! Stavo venendo da te, poi ti ho vista per strada e ti ho seguita. Ho suonato il clacson di proposito, pensavo ti voltassi.» mi spiegò lentamente.
«Diciamo che non pensavo fosse qualcuno che conoscevo, tra l'altro gli incontri improvvisi mi mettono ansia» confessai abbassando lo sguardo dai suoi occhi.
«Mi stai dicendo che non ti piacciono le sorprese?» mi chiese in tono quasi deluso.
«Esattamente.» risposi io in tono imbarazzato.
«Ma a me piace farle, soprattutto se tengo particolarmente a qualcuno.» commentò facendomi alzare delicatamente lo sguardo sul suo viso e guardandomi intensamente negli occhi.
Il suo sguardo era così dolce che non riuscii a restare impassibile. Sorrisi, abbassai di nuovo lo sguardo dai suoi occhi, mi bagnai le labbra e lentamente tornai a guardare il suo viso stupendo. Ero pronta a dirgli qualcosa, ero pronta a fargli capire che per lui avrei affrontato ogni mia ansia, ma Sam mi bloccò ancor prima che riuscissi a pronunciare anche una sola parola. Fece un mezzo passo verso di me, non eravamo così distanti, mi prese il viso tra le mani e fece incontrare le nostre bocche in un caldo e dolce bacio. Io ricambiai subito la sua dolcezza, portai una mia mano al lato del suo viso, giusto per assicurarmi che non scappasse via, ma non sembrava intenzionato ad andare da nessuna parte, non senza di me almeno.
«Ti va di passare la serata con me?» mi chiese dopo essersi staccato dalle mie labbra.
Io non sapevo quali fossero i suoi piani, cosa avesse in mente. Non mi piacevano le sorprese ma non avevo alcuna voglia di dividermi da lui.

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⏰ Ultimo aggiornamento: Feb 11 ⏰

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