1. Alone

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1. Sola.

Bussai, fradicia dalla pioggia e in lacrime. Ero scoppiata a piangere in mezzo alla strada, ignorando gli sguardi curiosi e le persone che mi si avvicinavano chiedendomi come stessi. Mi sentivo malissimo. Sentivo di essere divorata da qualcosa, e che niente sarebbe servito. La mia vita, adesso, era completamente finita. Julie mi aprì alla porta, con due guance rosse, i capelli scompigliati e le lacrime agli occhi. Mi abbracciò, e io rimasi immobile mentre mi stringeva. «Io ci sono. Puoi parlarne con me..» singhiozzò, e successivamente tirò su con il naso. Non avevo voglia di parlare, sentivo solo un enorme vuoto impossibile da compensare. Ero bloccata. Le parole non erano in grado di uscire. Chiuse la porta alle mie spalle ed io continuai a piangere sulla sua maglietta. «Sono sola Julie. Non ho più nessuno», piansi di più. «Siediti», mi accompagnò al divano. «Non sei sola. Ci sono io», si sedette accanto a me e mi abbracciò, baciandomi al testa. Le lacrime continuavano a bagnarmi il volto. «Vuoi un bicchiere d'acqua?», chiese accarezzandomi il volto. «No», singhiozzai. Sentii citofonare, e presto Simon e Travis entrarono da quella porta. Guardavo verso il basso, e per i primi secondi non riconobbi nessuno. Sembravano solo persone qualunque, non riuscivo a distinguerli. Poi Travis mi si sedette accanto e mi accarezzò la mano. «Mi dispiace», disse, e susseguì una grandissima confusione. Tante persone iniziarono ad accalcarsi in quel piccolo appartamento, con l'unico scopo di farmi le condoglianze e chiedermi se volessi un bicchiere d'acqua. Qualcuno mi chiese come stessi, e non seppi cosa dire. Vedevo solamente offuscato il pavimento del soggiorno a causa dell'acqua che risiedeva nei miei occhi. Solo in quei giorni realizzai che mio padre non c'era più. Era accaduto tutto così in fretta che ero troppo concentrata nell'attutire il colpo, piuttosto che metabolizzarlo. Venivano persone di continuo, Julie e Drake non mi lasciavano mai sola. Ogni volta dovevo ripetere cosa era successo, ed era come girare il coltello nella piaga. Sentivo che nonostante la solidarietà che mi mostravano non sarebbero mai stati in grado di capire. Il cellulare mi squillava di continuo, con le condoglianze e i lunghi messaggi di parenti o amici, dove mi dicevano tutti che mio padre era un grand'uomo. E lo era. "Dio coglie i fiori più belli del suo giardino" diceva un messaggio, di cui non riconobbi il nome. Mi diede speranza, e poi richiusi subito il telefono in tasca. La morte é più dura per chi resta. Chi resta deve trovare il modo di sopravvivere, di andare avanti con la sua vita, accettando il fatto che non rivedremo mai più colui che abbiamo perso. Vivevo con un fardello costante nel petto. Scorrendo tra le pagine dei libri di medicina leggevo il nome di papà che parlavano di lui al presente e scoppiavo a piangere. Quando il il cellulare di mattina mi squillava, una parte di me credeva che fosse lui. Ero abituata a ricevere le
sue chiamate alle sette e cinquanta, e alle nove di sera. Era puntuale, estremamente.
L'estate più strana della mia vita ebbe inizio. La passai sul divano, un po' sul letto, e a volte uscivo con Julie che insisteva fino alla sfinimento. Ero stanca, dei volti dispiaciuti e delle frasi come "la vita va avanti" "fatti forza".
Sentivo il vuoto. Un enorme involucro grigio, ma senza consistenza era al posto del mio cuore. Guardavo ogni cosa, ma al tempo stesso non osservavo niente. Ascoltavo della musica, lasciando che mi riempisse la testa, e mi evitasse il contatto con il mondo. Un mondo dove non volevo più stare, dove non avevo più posto. Un giorno avevo deciso che niente mi avrebbe più fatta soffrire, non avrei più permesso a nessuno di causarmi dolore. Decisi di diventare imperturbabile, di indossare una maschera di scontrosità e durezza, fingendomi più forte di quello che in realtà ero. Quella corazza che portavo, era solamente una finzione, una menzogna, un inganno. Niente era reale. Ma per quanto tempo puoi fingere di essere qualcuno, senza che quella maschera diventi il tuo vero volto? Alla fine il vero te rimane soppresso in un angolo troppo buio per consentirti di tirarlo fuori. Finisci col diventare chi non eri, e col perdere te stesso. Riflettevo su chi era la ragazza che si trovava in quell'esatto posto l'anno precedente. Alexis Bristol, eccellente studentessa, di buona famiglia, un po' scontrosa, di New York, una matricola.. Un'amica... una figlia.
E adesso? Non sapevo più chi fossi, e forse avevo anche perso quella maschera. Non ero nessuno. «Ehy! Mi stai ascoltando?», Julie mi richiamò staccando le cuffie dall'IPhone. Sia lanciò uno dei suoi acuti, e gli studenti che prima sembravano impegnati in chiacchiere iniziarono a girarsi verso di noi con una rapidità allarmante. Bloccai la canzone tastando lo schermo un milione di volte. «Che c'è non avete mai sentito una canzone in vita vostra?», ringhiai contro gli sguardi insistenti. Julie rise e mi tirò per un braccio verso
la stradina dell'ingresso. Era una giornata soleggiata, il campus era pieno di studenti con zaini sulle spalle e qualche libro in mano. Sembravano tutti contenti, e li invidiavo. Faticai a trovare qualcuno che non stesse sorridendo, ed era frustrante. Mi sentivo sola. Tutti erano tornati alle loro vite, altri ne intraprendevano di nuove, ma chi sa come io ero sempre l'unica a soffrire. L'unica con una vita difficile alle spalle ed una impossibile difronte agli occhi. «Non è per la canzone che ti guardano tesoro mio», disse lei, con quel suo tono insinuatorio. «E quale sarebbe la ragione?», incrociai le braccia al petto. «Gli hai preso il cuore, con le tue manine, e gliel'hai spezzato in due», mimò la scenetta con le sue mani smaltate. «Smettila», scossi il capo e attaccai nuovamente le cuffiette al cellulare. Le cose che prima mi infastidivano e turbavano, ora erano raddoppiate. «Scusa», sollevò le mani in segno di resa. «Parliamo d'altro.. Come va con Thomas?» Accese quell'irritazione. Ignorai le sue chiacchiere e infilai nuovamente le cuffiette nelle mie orecchie. «Cavolo che stronza che sei», gridò per farsi sentire, e stavo per strillargli contro qualche imprecazione, ma venimmo interrotte dall'arrivo di Charlotte. I suoi occhi vispi erano pieni di compassione. Le spalle contratte, mentre stringeva un libro al petto. Sembrava a disagio, e i suoi lineamenti dolci erano tesi. La mascella perfettamente schiusa, le palpebre si avvicinarono tra loro, e le guance forzarono un sorriso. Mi strinse in un forte abbraccio, ed io mi irrigidii. «Tesoro», aveva il solito tono, che mi faceva sentire una specie di relitto pietoso. Non sapevo se ringraziare, annuire, abbracciare o sorridere di rimando. Così finsi di non aver sentito a causa della musica. «Come va?», domandai, togliendomi quell'aria che avevo trattenuto troppo a lungo nel petto, e sfilando le cuffiette dalle orecchie. Le misi in borsa. Aveva un caffè in mano stretto al libro di biologia, e rimase piuttosto inebetita. «Bene e tu?», marcò il "tu" come se fosse scontato che stessi male. «Benissimo», forzai un sorriso, spingendo gli zigomi all'in su. Le rubai il caffè di mano e sorseggiai. Lei rimase con la mano a mezz'aria. «Quanto zucchero hai messo?», feci un verso di disgusto e glielo restituii. Non volevo perdere tempo in chiacchiere così mi avviai verso l'ingresso dell'Università, non pensando a tutti gli sguardi indiscreti. «Ehilà», sentii la voce di Simon alle mie spalle, e mi rinfilai le cuffiette, in modo che se mi avesse vista, avrei avuto la scusa valida per averlo ignorato. Mi afferrò un braccio per mia sfortuna, e mi finsi sorpresa, togliendole nuovamente. «Ciao, non ti avevo visto», mentii. «Come stai?», domandò, sempre come se la risposta fosse scontatamente "male". «Bene, molto bene», mi liberai dalla sua stretta, e finalmente ebbi l'occasione per ascoltarmi quella canzone. Le loro facce erano le stesse. Mi trasmettevano la pena che provavano per la povera orfana di Richard Bristol. Padri di famiglia morivano ogni giorno, eppure io avevo ricevuto le chiamate sgradevoli della Sheperd, di Evans, e persino della segretaria del rettore. Come se mi potesse essere minimamente d'aiuto sapere quanto fossero "dispiaciuti" della mia perdita. Entrai nell'aula venticinque, senonché quella di psicologia. Avevo il timore di incontrare Evans, così sgattaiolai verso gli ultimi posti infondo, ignorando la presenza di quei fastidiosi giocatori di football e le loro chiacchiere. Il professore entrò in classe con il suo cappuccino ed il suo cornetto al cioccolato, sedendosi sulla cattedra e terminando il suo lauto pasto. Accavallai le gambe e presi un quaderno dalla borsa. «Hai una penna?», domandai al tizio seduto accanto. «Ho un pennarello», non capii il motivo di quel sorriso idiota. «È molto grosso, vuoi che lo tiri fuori?», ridacchiò posando i gomiti sul banco. Spalancai le palpebre indignata «vuoi che tiri fuori delle forbici?» Si offese e si rigirò. Mi voltai alla mia sinistra, sperando ci fosse stato qualcuno di più cortese. «Ehy», bisbigliai e lei si girò. Era una ragazza carina, indossava degli occhiali ed aveva due luminosi occhi grigiastri. Per la prima volta mi sentii guardata in un modo differente. «Dimmi», disse con fare gentile. «Hai una penna?» Lei la sfilò dalla borsa, e notai numerosi braccialetti sui suoi polsi. «Sono Caroline», sorrise e me la porse. «Alexis», l'afferrai «grazie.» Evans iniziò quell'interessante lezione alla quale non prestai nessuna attenzione. Non riuscivo a concentrarmi in nessun modo, così iniziai a disegnarmi rondini sulle mani, stando attenta a non scoprire i polsi neppure di un millimetro. Me ne vergognavo, e ciò che avevo fatto mi faceva sentire come mia madre. E lo odiavo. Speravo solamente che nessuno l'avrebbe mai scoperto. Il tizio del pennarello giocò con una ciocca dei miei capelli. Spostai immediatamente la sua mano e lo fulminai con lo sguardo. «Acidona, perché l'hai piantato in asso?», sussurrò avvicinando la sua sedia alla mia. Sperai di aver sentito male, ma alla fine capii che non mi sarei mai liberata di quegli impiccioni alla Kingstom. «Evapora, sparisci.. Dissolviti», dissi continuando a disegnare sul quaderno. «Chi ti sei scopata?» Sentii un enorme calore diffondersi nel mio corpo e mi girai furente. «Nessuno, non che siano affari tuoi», ringhiai. Sospirò «ora che è di nuovo single..», mi circondò il collo con il suo braccio «gli si butteranno addosso tesorino», disse indicando con lo sguardo tutte quelle ragazze in prima fila. «Come mai ti importa? Sei gay?», feci un sorriso subdolo e il suo sguardo mutò del tutto. «Se vuoi ti dimostro quanto sono etero», infittì lo sguardo. «Tieni i tuoi tre centimetri per un'altra», gli strizzai l'occhio e tornai ai miei disegni, scrollandomi il suo braccio. Scosse la testa «mi piacciono le cattive ragazze», continuò imperterrito. Sbuffai esasperata e continuai a disegnare. Finalmente la lezione culminò, e per evitare di perdermi in chiacchiere, mi fiondai all'ingresso. Scappai fuori dove diedi un profondo sospiro. Incontrai Drake in corridoio. Aveva un aspetto orribile, considerando quelle contusioni sul suo viso e quei brutti lividi. «Che diavolo hai combinato?», chiesi allargando le palpebre. «Abbiamo trigonometria»,
mi prese il polso trascinandomi nell'aula venti. «Allora? Cosa hai fatto?», domandai preoccupata. «Un idiota mi ha usato come sacco da box», ridacchiò ed io lo fissai scioccata. «Come puoi prenderla così alla leggera? Sembri un reduce di guerra», osservai. «Finalmente hai voglia di parlare di qualcosa.. Perché non parliamo di te e McCall?», si avvinghiò al mio braccio, trascinandomi al primo banco. «Perché? Sediamoci in fondo», borbottai guardando dietro di me. Quei posti erano pieni, così sbuffando mi rigirai verso le cattedra. La professoressa entrò in aula e si sedette dopo aver dato il buongiorno. «Allora? Non vuoi più chiacchierare?», era parecchio divertito. Lo guardai male «se non taci riceverai altri pugni in faccia», minacciai. «Intendi farlo con quelle manine ossute?», ridacchiò. «L'ho già fatto», dissi guardandolo torva. La lezione cominciò, ed io non ci capii veramente niente. Mi spalmai sulla sedia stanca morta. «Segui», Drake mi colpì il braccio. «Segui tu, così poi mi spieghi.» «Non sto capendo un tubo», dichiarò. «Bene», posai i gomiti sul banco e mi presi la testa tra le mani. La professoressa continuò ad agitare il gesso sulla lavagna, e a fare un rumore parecchio fastidioso. Seguirono chimica II, e fisica. Finalmente la prima giornata scolastica terminò, e Julie dirottò la camminata verso la mensa. «Non voglio mangiare qui!», tentai di liberarmi, ma sembrava aver messo magicamente i muscoli. «È pieno di gente Julie.. Non ho voglia», mi lamentai una volta dentro. «Vuoi tornare alla tua vita o no?», inarcò un sopracciglio.
«No.» Continuò a guardarmi. Se conoscevo bene Julie sapevo che non si sarebbe smossa dalla sua posizione. Sospirai profondamente e mi lasciai convincere. «Sia chiaro, non mi siedo né con Simon, né con Travis, né con Jeremy, né tanto meno con..», il mio sguardo si perse alle spalle di Julie quando vidi una folla di gente ammassarsi. Mi avvicinai spintonando e vidi un tizio prendere Drake a pugni in faccia. Non sapevo come intervenire fino a che qualcuno non li divise. Riconobbi quel giocatore di football dal volto, ma non conoscevo il nome. Anche lui era pieno di lividi in faccia. Ma i ragazzi potevano essere più infantili di così? Drake se ne andò verso il bagno con un suo amico, mentre l'altro sparì tra la folla. Io e Julie li seguimmo e spalancai ansimante lo sportello. «Ma che diavolo è successo?», domandai allarmata. Drake mi sorpassò «ho gli allenamenti adesso, semmai passate dopo», si premette un fazzoletto sul naso e scomparve dietro alla porta senza dare nessuna spiegazione. Io e Julie ci guardammo allibite e abbastanza sconvolte dall'accaduto. Lei alzò le mani, «uomini!», commentò prima di trascinarmi fuori. Eravamo difronte alla porta del bagno, e la gente vi era affollata davanti. Mi feci spazio per passare, finché non inciampai su un fazzolettino per terra. Si poteva essere più sciocchi? Qualcuno mi afferrò un polso. «Vieniti a sedere prima di causare la terza guerra mondiale», disse Simon iniziando a trascinarmi verso un tavolo molto pericoloso. Erano uno più aggraziato dell'altro, lui e Julie. «Fermati!», ancorai i piedi a terra inutilmente. La sua forza vinse la mia quando mi costrinse a sedermi posando le mani sulle mie spalle. Non alzai lo sguardo per evitare di vedere chi sapevo avrei visto. Il mio cuore palpitava in preda all'ansia, così decisi di farmi coraggio e sollevare gli occhi. Mi sentii praticamente morire quando lo vidi seduto a due sedie difronte alla mia. In qualche modo catturai il suo sguardo, e non appena mi vide, l'espressione quasi sorridente che aveva assunto chiacchierando con quel qualcuno sedutogli accanto, gli scomparve dal volto. Ci fu un istante in cui ci guardammo negli occhi ed ebbi un tuffo al cuore, mi tremarono le gambe e divenni calda dall'agitazione. Successivamente distolsi lo sguardo per riporlo su Julie. Iniziò a parlare di qualcosa ma non l'ascoltai persa nei miei pensieri, e soprattutto con ancora quei pozzi blu stampati nella mia mente. Il rumore che generò una sedia strusciando sul pavimento richiamò la mia attenzione, e quando mi voltai, lo vidi alzarsi con il vassoio in mano, e sedersi in un altro tavolo pieno di cheerleader e qualche giocatore di soccer. Le ragazze gli si fiondarono praticamente addosso, ed una biondina gli si sedette sulle gambe. Riprese a ridere e a scherzare di qualcosa, mentre per la prima volta percepii cosa avevo perso, cosa avevo distrutto. Delle lacrime salirono a gli occhi, e con un groppo nella gola mi alzai all'in piedi. «Lascialo perdere, è un idiota», disse Travis con la stessa espressione di tutti dipinta in faccia. Mi allontanai a passi svelti verso l'uscita della mensa, e mi diressi per il parcheggio, con l'intenzione di guidare verso casa e rimanerci per settimane. Julie mi bloccò il polso, «ma dove vai?», domandò. «A casa», aprii lo sportello dell'auto. «Dai Lexie..» «Basta Julie! Faccio ciò che voglio, smettila di cercare di controllarmi inutilmente», sbottai prima di sedermi e mettere in moto. Rimase interdetta e con le labbra schiuse in segno di stupore. Misi in moto e guidai verso casa, dove finalmente trovai un po' di pace. Mi squillò il cellulare, ogni volta che accadeva da quel giorno tremavo e palpitavo. «..Pronto?» «Ehy», sentii la voce di Thomas. «Ehy», dissi seccata, iniziando a premere i diversi tasti del telecomando con l'altra mano. «Ti disturbo?» «No, figurati», sorrisi al di là della cornetta. «Come stai?», chiese premuroso. «Bene, grazie.» «Hai voglia di vedere un altro film.. Parlare.. O altro?» «In realtà sì, ho voglia di piangere per una settimana», mi scostai le coperte di dosso. «Bene, passo da te con del cibo?», domandò. «Sì, grazie», sorrisi e riattaccai. Sospirai profondamente e mi andai a buttare sul divano del salotto. Sentii suonare e quando aprii la porta entrò con del cibo cinese. Mi venne l'acquolina in bocca «ti adoro», confessai affamata. Sorrise e posò le buste sul tavolino difronte al divano. «Allora? Come mai vuoi piangere per una settimana?», domandò sedendosi. Feci lo stesso e mi raggomitolai nel pail afferrando le nuvolette. «Non so cosa provo davvero per lui», dichiarai mordicchiando una patatina. La mia mente era un turbine di pensieri. «Credevo gli avessi detto che non lo amavi più», si accigliò. Ne intinsi una nella salsa «be' gli ho mentito. Ed ora mi ha già dimenticata perciò..», sorrisi a labbra serrate in modo parecchio afflitto. «Non credo l'abbia fatto», ne prese una dalla bustina di plastica. M'incuriosii «come mai lo credi?» «Ne sono certo», si corresse e prese la scatoletta di alluminio. «Me lo farai mangiare con le mani?», scherzò. «Potrei»,
ridacchiai alzandomi in piedi. Raggiunsi l'angolo cottura e presi delle posate. «Tieni.» «Grazie.» Mi risedetti «mi sono seduta al tavolo della mensa, lui si è alzato e se ne è andato da una cheerleader, irritatamente bella», dissi affondando la forchetta in un raviolo ripieno. «A me sembra l'esatto contrario dell'indifferenza», commentò. «Spero non mi abbia dimenticata, anche se gli ho detto io di farlo», dissi con la lingua impastata dal cibo in bocca. Mi accorsi di quanto fossi egoista. «La cheerleader non sarà più bella di te»,
sorrise, ed io lo feci di rimando. «Lo è», affermai, dopo aver mandato giù un gran boccone. «Non credo proprio», continuò. «Grazie», mi voltai verso quegli occhi grigi. «E di che», afferrò il telecomando e cambiò canale un paio di volte, finché non trovò qualcosa di suo gradimento. Guardammo le noiosissime repliche del Big Brother, e chiacchierammo piacevolmente a lungo. «Una volta mi hai detto di aver perso qualcuno.. Di chi parlavi?», mi incuriosii. «La mia migliore amica..», sospirò. «È successo molto tempo fa», notai i suoi occhi sbrilluccicare. «Mi dispiace..», era strano dirlo piuttosto che sentirselo dire. «Anche a me», cambiò programma, quasi come uno scatto, impedendo alle emozioni di riemergere. «Come mai hai scelto medicina?», domandò prima di sorseggiare un po' di schweppes al limone. Feci lo stesso, dalla bottiglietta che mi aveva comprato. Mi sentivo sempre in difficoltà quando me lo chiedevano. «.. Io.. Non lo so. Forse per compiacere mio padre..», confessai. «E a te piace? Vuoi diventare un medico?» «Sì», dissi in modo poco convinto, che gli fece nascere un piccolo sorriso, concentrato sull'angolo destro della bocca. «Prendi un altro boccone», mi esortò. Obbedii e emisi un verso di approvazione. «Cavolo, non ho mai mangiato del cinese così buono!», esclamai. Ridacchiò. «Conosco i migliori ristoranti di tutta la Florida..», giocherellò con del cibo nella scatoletta di alluminio. «Un giorno ti porto nel mio paradiso.. È il cibo migliore dell'universo.» «Con piacere», sorrisi. Rimase fino alle sei, poi disse che aveva da fare, e lo accompagnai alla porta. «Scusa, se ti ho tormentato con i miei problemi..», sospirai. «Non mi hai tormentato, voglio solo darti una mano», disse arrivando sul pianerottolo. Gli si formò un bel sorriso in volto e poi mi baciò la guancia. Sorrisi e richiusi la porta. Mi gettai nuovamente sul divano, e mi addormentai senza aver studiato nulla. Avevo totalmente smesso di farlo, come se avessi del tutto perso il senso del dovere. Era frustrante perché mi sentivo in colpa a passare i pomeriggi senza aprire libro, e al tempo stesso non avevo proprio la voglia di farlo. Mi sentii percuotere il braccio, e presto incontrai gli occhi verdi di Arizona. «Che ci fai qui..», bofonchiai. «Pola ti sta preparando qualcosa, e poi vieni con noi», disse ed io mi girai dall'altra parte, poco intenzionata ad alzarmi. «E dove?», dissi assonnata. «Ci dai una mano al locale avanti..», mi spostò le coperte di dosso e mi trascinò in piedi. «Uffa..», mi lamentai verso il bagno. «Sbrigati! È meglio che poltrire su un divano», disse Pola. Mi feci una doccia frettolosa, indossai i primi jeans che trovai ed una maglietta a maniche lunghe blu. «Mi spieghi perché lavorare dovrebbe essere meglio che poltrire sul divano?»
Mi trascinarono di sotto, ed il locale era pieno zeppo di gente, specialmente ragazzi. «Allora? Cosa devo fare?», domandai una volta dietro al bancone. Era strano trovarsi dall'altro lato di esso. «Devi servirli», Pola mi strizzò l'occhio. «Ma dai? Sei davvero d'aiuto», risposi ironica. «Una vodka», un tizio mi fece un cenno, ed aprendo un paio di cassettoni trovai la bottiglia. Pola e Arizona mi dissero cosa fare, finché non ne ebbi più il bisogno. «Due tequila», riconobbi il volto di quel ragazzo che mi aveva offerto da bere l'ultima volta che avevo messo piede in quel locale. Ero brilla, e poi io e Jake avevamo litigato a morte, per poi fare l'amore. Gliele servii. «Una è per te», strizzò l'occhio. Arizona era lontana così la chiamai facendo un cenno. «Posso bere?», domandai ad alta voce data la distanza. «Certo», gridò mentre serviva. Mi scolai quel bicchiere, la testa iniziava a girarmi. Feci uno strano verso e scossi rapidamente il capo per mandarla giù. «Allora? Me lo puoi dire il tuo nome?», chiese mentre notai il suo sguardo perdersi nella scollatura della maglietta. L'alzai «Alexis»,
ripresi a servire, e ignorai la sua presenza. «Scusa.. Sono ubriaco e non riesco a non guardarti per quanto sei bella», disse sembrando privo di malizia, anzi davvero dolce. «E va bene.. Mi puoi offrire un'altra tequila», dissi io riempendo altri due bicchieri. «Mi sei simpatica Alexis», sorseggiò, ed io feci lo stesso. L'alcol entrava in circolo, ed io lo reggevo poco. «Come ti chiami?», domandai io, prima di scolarmi anche quel bicchiere. Strizzai gli occhi e lo persi di vista. «Sei ubriaca?», chiese Pola afferrandomi un braccio. Probabilmente barcollai, afferrai una bottiglia di vodka e mi andai a sedere in un tavolo qualunque. «Mi chiamo James», il ragazzo di prima si sedette difronte a me, ma io neppure lo focalizzai. «Eri sparito», dissi prima di attaccarmi a quella bottiglia. Senza neppure sapere come me lo ritrovai accanto, e me la strappò di mano. «Voglio dimenticare la mia ex», sorseggiò. «Io voglio dimenticare il mio ex..», biascicai prendendola nuovamente. Un paio di ragazzi ubriachi presero posto difronte a me, mentre ridevano incontrollatamente e facevano una marea di caos. «Facciamo un gioco», disse uno spalmandosi sul tavolo. Girò la bottiglia vuota su di esso, che puntò verso quel James. «Sì rifa», la girò altre sei volte finché non puntò verso di me. «Baciami», si alzò in piedi ed io ridendo scossi il capo. «Assolutamente no», dissi categorica. Abbassò il labbro inferiore e si mise in ginocchio «ti prego», supplicò. Risi e gli baciai la fronte. «Contento?» «La bocca», mi fece alzare e mi fece sedere sulle sue gambe. Posò una mano sulle mie labbra, e se la baciò appassionatamente. «Ora sono contento», rise ed io feci lo stesso. Bevvi altra vodka e per divertimento iniziammo a tirare fazzoletti ai presenti, che sfuriavano in diverse lingue. «Come ti chiami?», chiese quello su cui ero seduta. «Alexis», gli stampai un bacio sulla guancia e sorrise. «Potrei morire», dichiarò suscitandomi una nuova risata. «E tu come ti chiami?» «Josh», rispose lui. Mi voltai verso l'altro, che avvicinò lo sgabello, mettendosi a capo tavola. «E tu?» «John», disse. «James, Josh e John.. La "J" mi perseguita» biascicai qualcosa quando sentii percuotermi il braccio. «Ma cosa stai facendo?» «A proposito di "J"», dissi alla vista di Julie. «Oh mio Dio.. Andiamo!», mi tirò ma io mi impiantai. «No.. Julie», mi liberai dalla sua stretta e lei offesa alzò i tacchi. Non sapevo cosa fosse andata a fare, ma continuai a bere senza sosta e a ridere incontrollatamente per qualsiasi scemenza, che mi appariva la cosa più divertente del mondo. Qualcuno mi prese d'un tratto in spalla, e non mi risultò difficile riconoscere la delicatezza che fu applicata. Ero totalmente scombussolata. Sentivo nuovamente il suo profumo di pulito, la sua pelle calda. Gli cosparsi la schiena di pugni mentre attraversavamo la strada. «Lasciami andare!», gridai inutilmente. «Tranquilla ,ti scarico a casa e ti lascio molto volentieri», rispose lui, in un modo così freddo e distaccato che sembrò una coltellata nello stomaco. «Lasciami qui», la mia voce cambiò del tutto, mi sentivo improvvisamente triste. Non avevo mai sentito quel tono, indifferente ma al tempo stesso duro. «No, almeno non avrò sulla coscienza il fatto che saresti andata in coma etilico», entrò nel palazzo. «Stai facendo questo per la tua coscienza?», domandai. Non rispose e salì per le scale, mentre i miei capelli sfioravano quasi il pavimento. «Se potessimo evitare la conversazione sarebbe meglio», non la smetteva di farmi soffrire con le sue parole crude ed amare. Gli diedi altri pugni sulla schiena ed iniziai a sentire dell'acqua tra le palpebre. Sbattendole delle lacrime iniziarono a strusciarmi sul viso. «Ti odio, sei uno stronzo e ti odio», gridai, liberando quel peso sul petto, che salendo causava un bruciore nella gola. Aprì la porta di casa. «Continua, avanti», disse percorrendo il salotto. Tirai un'altra decina di inutili pugni sulla sua schiena ed entrammo nella mia camera. Mi buttò sul letto. Mi ci sedetti, e quando sollevai gli occhi lacrimanti ed incontrai i suoi, notai come sembrava sorpresa la sua espressione. Non ne capii veramente la ragione finché non schiuse le sue splendide labbra. «Perché stai piangendo?», chiese abbassandosi alla mia altezza. Il suo tono era cambiato, era caldo. Era diventato come quello che assumeva ogni volta che mi asciugava le lacrime e mi rassicurava, in quel modo che nessun altro era mai stato in grado di fare. Guardai il basso per evitare di incontrare i suoi occhi. Slacciò una mia scarpa e la lanciò a terra da qualche parte, poi fece lo stesso con l'altra. «Perché ti odio.» In realtà piangevo perché lo amavo da impazzire, ma al contempo lo odiavo per ciò che aveva fatto. Mi guardò in uno strano modo, come se mi stesse studiando e stesse riflettendo su qualcosa. «Prima eri forte ma ora.. Sei dura», mi fissò nelle pupille e si rialzò. Abbassai lo sguardo e mi strinsi le ginocchia al petto. «Ma la tua dote di essere un'ottima bugiarda si sta affievolendo visibilmente», commentò. Sollevai le spalle e mi alzai in piedi, con l'intento di indossare qualcosa di più comodo per dormire. Barcollai e feci un passo su un altro, calpestando il piede sinistro con quello destro. Mi afferrò e mi fece sedere nuovamente sul letto. Si allontanò, dandomi le spalle. «Sta' buona», disse frugando nell'armadio. Tirò fuori una maglietta e la osservò per qualche breve secondo. «Questa era mia», la posò sul letto, con quel pizzico di malinconia che trapelava dalla sua voce. Se non l'avessi conosciuto così bene non me ne sarei neppure accorta. Si abbassò alla mia altezza, e senza né indugio, né imbarazzo avvicinò le sue mani al mio ventre. Sfilò il bottone dei i miei jeans dalla fessura, e abbassò la zip. «Se vuoi riprenditela», dissi io. Scosse la testa, abbozzando ad un finto sorriso. Insinuò le dita nell'elastico dei jeans, facendomi palpitare. Abbassò i pantaloni fino alle caviglie, e li gettò a terra. Sentii il suo respiro fresco sfiorare la mia pelle, e percepii quanto odorassi di alcolici, e a quanto fossi in uno stato particolarmente pietoso. Mi spogliò anche dalla maglietta, e dimenticai per un istante la ragione per la quale lo stesse facendo. M'immaginai che stessimo ancora insieme, e che tutto ciò che fosse successo dopo non fosse veramente mai accaduto. Ma purtroppo non era così. Mi infilò quella t-shirt, per la testa e poi per le maniche. Rimasi a guardare il pavimento di quella stanza buia, e ci furono lunghi attimi di silenzio. «Ho paura», ammisi fissando un punto a caso. «Di cosa?», si sedette accanto a me nel letto. «A volte ho paura di prendere l'auto... Altre ho paura della suoneria del mio cellulare», risi acidamente «..Ho di nuovo paura di tante cose», confessai. «Scusa», disse, ed io mi girai verso di lui. «Ho detto che mi sarei preso cura di te, ma non l'ho fatto nel modo giusto.» «Oramai non ha più importanza», mi stesi sul letto, mentre delle lacrime mi rigavano il viso. Si alzò in piedi, evidentemente non voleva passare neppure un secondo in mia presenza. Mi faceva male, vedere come odiasse passare un solo attimo con me, come se fosse la cosa peggiore al mondo. Mi stava facendo soffrire da tutto il giorno, e probabilmente non gli importava di farlo. Probabilmente non gli importava più di me. Si diresse verso la porta, e l'aprì subito dopo. «Jake», lo chiamai e si girò. «Scusa», mi strinsi al cuscino, che riempii di acqua. Richiuse la porta e ci appoggiò la schiena sopra. «Non devi chiedermi scusa, tu non hai fatto niente», disse lui. «Non voglio stare da sola», ammisi. Lo sentii sospirare profondamente. «Aspetterò che tu ti sia addormentata okay?», domandò. «Grazie», piansi di più, e forse sonoramente. Mi asciugai il volto e si sdraiò ad un metro di distanza da me. Era un letto a due piazze, ed era così freddo e ampio che mi sentii comunque sola. «Non piangere», si mise su di un fianco. «Dammi almeno un motivo per non farlo», dissi con voce strozzata. Ci fu silenzio per qualche attimo «vedi.. La mia vita non è la cosa più patetica dell'universo?», singhiozzai. «No», disse seccamente. «Non dirlo», mi asciugò una lacrima con il pollice. «Se ti chiedessi una sola cosa che mi va bene non sapresti rispondermi», affermai. «Forse non lo vedi, ma hai tante persone accanto che tengono molto a te», ritirò la mano. «Vorrei che una persona tenesse a me in questo momento», affondai il volto nel cuscino per evitare vedesse i miei occhi gonfi e tutte le lacrime che sgorgavano dai miei occhi. «Di chi stai parlando?», domandò senza ricevere la mia risposta, che a me appariva scontata. Sigillai le palpebre, e mi costrinsi ad addormentarmi, anche se sapevo che quando l'avrei fatto, lui se ne sarebbe andato, e non volevo che accadesse. «Ehy», insistette e mi misi sull'altro fianco dandogli le spalle. «Sono solo ubriaca», mi giustificai e mi infilai sotto alle coperte, sentendo un gran freddo.

Amami nonostante tutto 2Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora