30. Best thing i never had

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Questo è l'ultimo capitolo di Amami Nonostante Tutto 2, ma c'è il sequel "Amami Nonostante Tutto 3". Passate!

Passai difronte Starbucks quel pomeriggio. Presi un caffé e passeggiai per i marciapiedi affollati di Manhattan. La gente brulicava per la città. Uomini in giacca e cravatta, donne ricchissime, vestite di Prada, Chanel o Louis Vuitton. New York era bellissima. I grattacieli non arrivavano solamente in alto, ma toccavano quasi il paradiso. A Miami, né tanto meno a Cheansburg, il caffé non era così buono. Passai difronte alla mia scuola del liceo. Oggi non c'era nessuno, era domenica. Feci un giro a Central Park. Io abitavo nella parte est del distretto. Gli alberi riflettevano la luce verde delle loro foglie sul lago, illuminandolo di uno smeraldo affascinante. Il cielo non era poi così coperto per essere a New York, e non faceva neppure tanto freddo come mi immaginavo. Gettai il bicchiere del caffé. Vicino ai miei piedi rotolò un pallone da calcio. Sollevai lo sguardo. Dei bambini stavano giocando in mezzo al prato, qualche metro più a destra. Colpii la palla con il piede, forse fu un tiro troppo di punta, eppure il pallone arrivò nel posto giusto. Un bel bambino biondo mi ringraziò sollevando la mano, ed io gli sorrisi. Le domande che mi avevano fatto qualche ora prima mi rimbombavano ancora in testa, come le risposte che avevo dato. Non potevo rimangiarmi niente, avevo detto tutto, tutto quanto. Mi avevano tirato fuori cose che non avevo mai detto ad alta voce, cose che neppure io sapevo di sapere. Mi avevano fatto vedere delle mie foto, foto che avevano ritrovato loro, ed io neppure ricordavo mi fossero state scattate. Ero piccola, non ricordavo d'essere così. Mia madre mi aveva fatto cose bruttissime. Mi ricordai della soffitta, quella sera non avevo fame, non mi piacevano i broccoli. Papà non c'era, Jonas a calcio, Alex mancava come sempre, e Jessica parlava al telefono con una sua amica nella sua stanza. Forse mia madre mi odiava per questo. Non riusciva a volermi bene perché io gli impedivo di lasciarsi andare, io c'ero sempre, c'ero troppo spesso. Ero un intralcio. Non ci sarei mai più stata fino a quel punto per nessun altro. Ci sarei stata solo per me stessa. Tornai nella strada dell'Hotel. Jonas stava ancora in commissariato, io avevo finito all'incirca un'ora prima. Il Trump International era uno degli hotel più belli di tutta New York. Era ammantato d'oro. Lusso e sfarzo illimitati. Salii nella camera attraverso la hall, la stanza di Jonas era quella accanto. Presi in mano il mio cellulare. Trentadue chiamate perse. TRENTADUE. Sedici messaggi, e sette in segreteria telefonica. Dovevano smetterla di chiamarmi, avrebbero potuto farlo prima. Gettai il telefono sul letto ed accesi la televisione. Il telegiornale mi metteva angoscia, ma alla fine lo vedevo sempre. Dovevo sapere che i miei drammi non erano nulla in confronto alle guerre nel mondo, alle morti. Dovevo renderemi conto che i miei problemi, in fin dei conti, erano risolvibili. La bellissima giornalista dagli occhi color pece, era difronte ad una villa grandissima, bianca, con altissime colonne ed un giardino verde invidiabile da ogni vicino di casa. Per non parlare di quelle peonie. Sembrava la dimora degli dei dell'Olimpo in terra, prima che parlasse. Il volume era basso, ma sentii un nome. «Josh McCall...» Alzai immediatamente il volume. Era Cambridge. «Il giallo si infittisce sul caso dell'imprenditore di Cambridge. Le circostanze dopo tre mesi sono ancora incerte, ma per ora sembra sia un caso d'omicidio. L'uomo, rinvenuto privo di vita nel bosco sulla strada tra la città di Boston e la piccola cittadina, era immischiato in affari ancora poco chiari per quanto riguarda le aziende di suo possesso in California, presso Los Angeles. I federali indagano sugli affari e sugli accordi più recenti dell'imprenditore, che qualche giorno prima della sua morte cedette un'importante quota della famosa azienda petrolifera. Si teme che l'uomo sia stato vittima di intimidazioni e minacce da parte di associazioni di stampo mafioso.» La giornalista si voltò con un scatto quando udì alle sue spalle una voce profonda. Un uomo sulla cinquantina, da dentro il portico, le fece cenno di andarsene molto animatamente. Non l'avevo mai visto. «Signore, signore... Cosa ne pensa delle ultime ipotesi? Teme anche lei si sia inscenato un suicidio?» insistette la donna bionda, sotto all'ombrello rosso e con il microfono in mano. «Vada via, non abbiamo nulla da dirle!» rispose lui brusco, prima di rientrare nell'abitazione. «Grazie, Kayla, la linea torna in studio. Cambiamo ora argomento, parlando delle sempre più vicine elezioni presidenziali. La propaganda di Donald Trump...» Smisi di ascoltare. Quella sì che era una tragedia. Mi sembrava di inghiottire lamine, io che neppure conoscevo Josh. Avevo conosciuto la sua famiglia, Jackson, Jim, e tutti i loro fratelli. Non immaginai cosa volesse dire per Bill, perdere un fratello e perderlo in quel modo. Mi fece pensare. Se la mafia di Los Angeles era immischiata negli affari del fratello di Josh, lo era anche negli affari di Bill. Le aziende di Los Angeles erano anche di Bill. E se fosse stato in pericolo? Il cellulare mi squillò ancora. Era una chiamata di Julie. La rifiutai e poi mi stesi a pancia in sù sul letto, a fissare il soffitto. Stavo meglio di quanto avessi immaginato. La sera stessa mi preparai per uscire. Jonas, come avevo preveduto, non era ancora tornato, e pensai che probabilmente anche lui dopo quel brutto pomeriggio avesse bisogno di schiarirsi le idee. Comprai dei fiori, delle rose bianche. Al fioraio le chiesi con le spine, ancora interrate di modo che avrebbero vissuto più a lungo. Salii nel taxi, ed arrivai al cimitero. Jonas già mi aveva dato le indicazioni per trovare il luogo dove era sepolto papà. Non fu strano, non ebbi timore. Riconobbi la sua foto incisa nella lapide più in fretta di quanto pensassi. Era da tanto che non vedevo una sua foto. C'erano tante persone lì, eppure non c'era più nessuno di loro. Volevo piangere, ma qualcosa me lo impedì. Appoggiai il vasetto sotto alla scritta incisa sul marmo "eri e sarai il nostro faro nella notte. Figli e amici. 1961-2015." La gola iniziò a bruciare e dell'acqua mi raggiunse gli occhi. Ne avevo ancora bisogno, mi ripetei che non era giusto, ma che come al solito non potevo più farci niente. Forse avrei potuto fare qualcosa prima. Ma prima non è adesso, e adesso è tardi. Attesi qualche minuto, seduta a terra, con lo sguardo fisso sui suoi occhi azzurri. Quella foto era recente, la doveva aver scelta Jessica. Indossava una delle sue camicie celesti, la sua cravatta. Aveva raso del tutto la barba. Era bellissimo. Me ne andai, con le cuffie nelle orecchie pur di non sentire la voce nella mia testa che mi dava la colpa di ogni cosa che mi era successa. Non era colpa di Jake se non gli avevo detto addio prima che morisse, era solo colpa mia.

Amami nonostante tutto 2Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora