29. Holding On and Letting Go

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Jake mi aveva guardata con disprezzo per tutta la giornata. Avevo incontrato altra gente in giro per il campus e nessuno si era comportato come faceva di solito. Mi fissavano tutti quanti con aria strana, sguardi fugaci, rivolgendomi piccoli saluti molto freddi. Di Julie nessuna traccia. Eppure oggi non era un giorno come gli altri per me. Oggi avrei deposto contro mia madre, e raccolte tutte le prove, si sarebbe instituito il processo contro Caren Hamilton, la donna che aveva fatto in mille pezzi la mia infanzia e la mia adolescenza. La donna che era sempre riuscita a rendere la mia vita un inferno con le sue mille facce, e la peggiore era quella che ti faceva credere di poterti fidare di lei. Poi, il suo volto, cambiava come le due facce di una foglia. Domani sarei stata libera per sempre, e forse avrei razzionalizzato, decidendo cosa avrei fatto della mia vita. Prendere in considerazione l'idea di andare dalla nonna Cecilie, che anche se non si era mai fatta sentire, sembrava essere l'unica della mia famiglia a tenere a me. Sapevo che l'affetto si dimostrava con i fatti, con le chiamate, magari le e-mail. Ma lei diceva di volermi bene, e voleva dire molto per essere una Bristol. Una che odia esternare i propri sentimenti. Il West Virginia non doveva essere poi così male; di certo non era come Manhattan, né tanto meno come Miami Beach e la Florida. Ma pur di lasciarmi tutto alle spalle, mi sarei rintanata in una piccola fattoria a bere latte per la maggior parte del mio tempo. Qui, non avevo più nessuno da cui tornare, e l'idea di portare con me a New York tutta le mie cose, mi aveva sfiorato la mente dopo lo sguardo terribile che Jake mi aveva rivolto quella mattina. Mi sentivo la feccia dell'umanità e presto capii cosa lui volesse dire. La Kingstom non era rimasta così sconvolta le prime due volte in cui, in preda alla pazzia, avevo baciato Simon. Quindi non lo sarebbbe stata alla terza. Capii che avevo fatto di peggio, lo temetti. Forse, partendo, nessuno mi avrebbe più guardata in quel modo e quindi quella faccenda sarebbe rimasta sepolta. Jake non mi avrebbe più guardata come se lo disgustassi, una volta che sarei partita. Il sole stava ormai tramontando e le mie valigie erano in piedi vicino alla porta. Non volevo andare in mensa senza Julie, non mi ero mai sentita così vuota e sola. Ora capivo cosa volesse dire avere degli amici, prima lo davo per scontato senza dargli importanza. Ancora una volta, mi accorgevo di quanto qualcosa fosse prezioso, nell'esatto momento in cui lo stavo perdendo. "Ti sto aspettando, stronza. Ti ho anche preso da mangiare come solo il tuo amico frocio sa fare." Ridacchiai. Drake era insuperabile, non mi giudicava mai, come farebbe un amico. A lui non importava se avessi torto o ragione, se fossi magra o grassa, bella o brutta, lui per me c'era sempre. Mi dispiacque di non averlo capito prima, e di sparire senza dirgli nulla... Una volta in piedi il mio tallone colpì la scatola dei ricordi che mi aveva spedito Alex tempo prima. Corrugai la fronte, e mi abbassai per rimetterla apposto. Quando ero tornata in stanza qualche ora prima, a causa del messaggio di quel patetico e annoiato stronzo - J -, non avevo trovato nulla di anomalo. Tutto era al suo posto, tranne quella scatola. Ricordavo di averla messa più infondo, di modo che nessuno la vedesse. La tirai fuori, sentendo il mio cuore battere più forte. L'etichetta sopra al cartone mostrava il nome di mio fratello "Alex Walker", cerchiato di rosso almeno tre volte. Non ero stata io. Non capivo cosa ci fosse di importante. Quando compresi che quel qualcuno di cui non conoscevo l'identità si era introdotto nella mia stanza, un tepore di paura mi agonizzò il corpo. La sentivo, ora era viva ed accesa. Mi chiesi il perché, il significato di quel segno. Cosa c'era di importante in quel nome? Sapevo che era stato adottato, sapevo che aveva preso il nome della sua famiglia biologica adesso. Mi alzai in piedi e chiusi tutte le finestre, uscii in corridoio e girai la chiave nella porta almeno sei volte, non che servisse a chissà cosa. Partire era una scelta responsabile, J poteva minacciare la mia incolumità. Più volte mi ero chiesta chi potesse essere, pensando a tutti i nomi di coloro che conoscevo, che cominicavano per J. Era stato solo tempo sprecato, non avrei mai saputo chi fosse il mandante di quei messaggi. Avevo pensato ai minimi dettagli, ai momenti, alle ore, alle circostanze. Eppure, nella mia testa, non lampeggiava la certezza di nessun nome. Forse J non esisteva, non aveva consistenza. Alzai il cappuccio della felpa quando appurai che per la prima volta lì, si gelava dal freddo. Drake sedeva in un tavolo esterno, messaggiando al telefonino. Lo raggiunsi, tentando di non essere spazzata via dal vento che, però, non smosse di un soffio i suoi capelli gelatinati. Quando mi vide sorrise a centotrentadue denti. «Ehilà. Ti davo per dispersa.» Mi salì un groppo in gola al pensiero che non l'avrei più rivisto, e non potevo dirgli addio altrimenti mi avrebbe fermata. Sorrisi e, senza dire niente, mi sedetti difronte al mio vassoio. Inghiottii qualche crocchetta di pollo, con lo sguardo basso. Drake mi guardò di sottecchi, con aria lievemente sospettosa. «Tutto okay?» Avevo un modo straordinario di mentire, o almeno così diceva Jake. Annuii. «Sono solo un po' giù... Julie non...» «'Sti cazzi. Parliamo di Jake. Che hai combinato? Care mi ha detto che hai fatto un casino al SetHouse. Dicono che hai fatto uno stupido gioco con la squadra di football, finendo per ballare mezza nuda e farti toccare da Simon, Steve, persino Scott e...» Sbarrai gli occhi. «Mi sembra che ti abbia palpata anche una ragazza.» Scoppiò a ridere. «Giuro, l'omosesualità non è contagiosa.» «Drake, scherzi vero?» Lui annuì. «Ti pare! Dopo essere stata a letto con Jake, e impossibile non rimanere fedeli al cazzo. Solo, magari, avresti dovuto tenerti stretto il suo.» Rise sotto ai baffi. Io ancora non avevo capito se scherzasse o meno, ma una voce dentro di me disse che in quelle frasi c'era sicuramente del vero. «DRAKE. Sai che ho fatto oppure no? Vorrei cercare di rimediare prima che...» «Prima che?» Corrugò la fronte. «Nulla. Vorrei solo rimediare. Sono agitata. Ho fatto davvero ciò che hai detto?» In preda ad una disperazione sincera, mi presi la fronte tra le mani. «Hai giocato ad obbligo o verità, questo lo so. Non dovresti mai farlo con quelli della confraternita. Figurati quella degli Ancients, stupida. Sono amici di Jake! Poooi, vediamo... Simon ti ha detto di ballare per lui, o almeno così dice Kurt, che l'ha detto a Jackie, che l'ha detto a Morgan che l'ha detto a me. Lucille mi ha detto che ti sei prima appartata con Simon - obbligo di Steve - a fare non so che. Lui  ha anche detto a Lucille che sai di vodka alla pesca, quindi immagino ti abbia assaggiata. Quella troia ha insistito un po' dicendo che sarebbe riuscito a portarti a letto, ma non vi siete allontanati dal locale. Mmh... Secondo me Lucille è lesbica. Ha un'ossessione per te quella ragazza, lasciatelo dire.» I miei occhi si erano sbarrati al massimo a metà del suo discorso. Inghiottii aria e sudai freddo. «Appartata con Simon? Io lo ammazzo!» Scattai in piedi come una furia, ma prima che potessi raggiungere l'interno per scagliarmi contro di lui, una figura si mise di intralcio tra me e l'ingresso. Lucille mi guardò con un sorrisetto subdolo sulle labbra innaturalmente rosse. Anche a me piacevano i rossetti, ma di certo non avevo bisogno di inventarmi le labbra dipingendomi di rosso fino al naso. «Eccoti... "Santarellina".» Incrociò le braccia sotto il ferretto del reggiseno con il push up. «Levati di mezzo.» Quando tentai d'oltrepassarla, mi si piazzò davanti un'altra volta, con aria indispettita. «Cosa c'è? Hai rotto con il fidanzatino? Finalmente si è accorto che sei tremendamente noiosa.» Infittii lo sguardo. «Non sarebbe affatto noioso strapparti quella paglia dalla testa. E fidati, lo farò.» Con sguardo trucido si fece indietro. La sorpassai, lasciandomela alle spalle. «Fallo pure. Non c'è più il tuo paparino a garantirti che non verrai espulsa.» Qualcosa mi si infiammò nel petto. «Che hai detto?» «Ho detto che il tuo paparino non è più qui a raccomandarti.» Mi voltai. «Ce l'hai una tua vita? O sei davvero così tremendamente sola e patetica da parlare tutto il giorno di me?» Solo allora rimase in silenzio. Sentivo una rabbia senza freni molecolizzarsi nell'aria. «Sei tu, talmente sola e patetica, che non posso fare a meno che parlare di te tutto il giorno.» «Probabilmente hai ragione. Tu, Alison, Brittany, e la sfilza infinita di troie che questa università contiene, l'avete vinta. È per Jake, che fate così, giusto? Be' è tutto vostro, ma solo perché io non voglio stare con lui. Hai una chance su un miliardo, solo perché io ho deciso che tra noi è finita. Ora dimmi, chi è la patetica?» Lucille tacque, lasciando incombere un vergognoso silenzio. La mensa non era piena come gli altri giorni, e quando vidi Simon in fila, mi salì in gola un inquantificabile ira. Era mio amico, e si era approfittato di me. L'odiavo. In qualche modo catturai il suo sguardo, e quando si girò del tutto vidi che aveva un enorme livido viola sotto all'occhio. Deglutì. A passi svelti mi raggiunse, fermandosi con il vassoio difronte a me. «Già mi ha gonfiato di botte.» Rimasi in silenzio, mentre un'umiliazione irrefrenabile dilagava sempre più rapidamente dentro di me. Sentii la gola bruciare. «Io non faccio questo genere di cose.» Simon annuì. «Lo so.» «Io non volevo bere.» «Lo so...» «Non volevo neppure venire lì.» «Alexis, lo so...» «Tu mi hai fatta bere! Simon, tu hai...» «Lo so, mi dispiace, basta. Non parliamone qui.» «Allora vieni fuori!» tuonai. Aspettai che fosse uscito per riprendere a parlare. Fuori faceva freddo, ma non mi importava. Simon non mi guardava neppure negli occhi, e ci fu silenzio per i primi cinque o sei secondi. Decisi che dovevo dire qualcosa, ma aprii solo le labbra, perché lui mi precedette. «Senti, io ero ubriaco, tu anche. Lo sai che effetto... Insomma lo sai, lo sapevi che ho un debole per te. Tu mi hai provocato e...» «Alt! Io non ho provocato nessuno», dissi con fermezza. «Ah no? Ma non ti ricordi proprio niente del casino che hai fatto?» Con più insicurezza, scossi la testa e guardai verso il basso. «Non serve che tu lo sappia.» «È così brutto ciò che ho fatto?» Il cuore mi batté sempre più forte. Non disse niente. Tacere vuol dire acconsentire. Balzò sul muretto. «Scusa, lo sai che se avessi avuto un barlume di lucidità ti avrei riportata in camera.» «Tutti mi credono una troia, adesso. Mi mancava solo questo appellativo.» Saltai su anche io. «Ma non lo sei. È vero, hai ballato e fatto un po' di casino ma non sei andata a letto con nessuno», mi assicurò. «Nemmeno con te?» Sorrise. «Pensi che non me ne sarei già vantato con tutti?» Apprezzai quel modo di tirarmi su il morale e feci un sorriso di rimando. «Julie ce l'ha a morte con me. Dovresti parlarle.» «Siamo dei pessimi migliori amici. Non credo che Jake mi perdonerà un'altra volta.» «Lo sai com'è fatto, lui si arrabbia spesso e in modo eccessivo. Poi cambia idea.» «No, non cambia idea. Cambia idea quando si tratta di te, perché non ne può fare a meno. Ma ogni volta che abbiamo litigato, alla fine... Non lo so, piano piano la nostra amicizia è cambiata.» «Ogni volta si porta via i pezzi di me.» Mi mise un braccio attorno alle spalle. «Per la terza volta, porca miseria», imprecò. Mi salirono le lacrime agli occhi. «Sono così stupida! Tremendamente stupida. Tutti prima o poi lo capiscono.» Mi strofinai gli occhi, inzuppandomi le mani di lacrime e trucco. «Io non penso che tu sia stupida.» «Lo sono.» Appoggiai la fronte contro il suo petto e cominciai a singhiozzare. «Cosa ho fatto? Dimmelo.» «Non...» «Dimmelo.» Sospirò. «Mi ricordo che abbiamo giocato ad obbligo e verità nel terrazzo. All'inizio ci stavamo solo divertendo un po'. Poi ti sei seduta in braccio a me. Ti ho detto di allontanarti, ma non hai obbedito. Ti ho baciata, obbligo di Kurt. Poi ti sei tolta la felpa e hai ballato per qualche ora. Niente di che.» «E basta?» Appoggiai la testa alla sua spalla. Non rispose, per uno o due secondi. «Basta.» «Tutto qui?» Ero piacevolmente sollevata. Annuì. «Drake mi ha detto che...» Mi distaccai e feci una barriera da Simon attraverso i capelli. Non volevo che capisse che ero a disagio. Me li spostò dal viso. «Che?» Scossi la testa, me ne vergognavo troppo. Mi vergognavo di ammettere anche qualcos'altro. E se ci fosse stata una ragione dietro a tutto? Che se avevo baciato Simon tre diverse volte, forse, un po', ma pochissimo, ne ero attratta? Prima non avevo mai pensato una cosa del genere. Tempo fa Jake era tutto per me. Ora lui mi odiava ed io dovevo smettere di farmi trattare così. Avevo sbagliato la scorsa sera, lui aveva ragione. Ma non mi sarei attaccata ad una bottiglia se lui fosse rimasto con me. Se lui ci fosse stato per me, io non avrei fatto stupidaggini, sarei rimasta sua per sempre. È stato lui a non volerlo, lui con quel "vattene", con quel "penso di amarti." Era stato lui a rendere la mia vita un disastro. Lui con quel "non è stato niente", lui con le sue bugie, lui con i suoi modi bruschi di farmi sentire il niente. Non avevo mai minimamente compreso cosa fosse realmente il nulla. Prima di sentirmici. Mi tremò il muscolo del mento. Finalmente era tutto finito, finalmente me ne stavo andando per sempre. Non avevo un punto d'arrivo, ma un punto di partenza. «Senti... Penso che se ti sei comportata così non è esclusivamente colpa tua. Anzi, non lo è per niente. Tu non hai fatto niente di male. Semmai è colpa mia. Ma non abbiamo fatto nulla di che.» Mi asciugai gli occhi. «Non importa ormai. Sto andando a New York. Non può nemmeno vedermi. Julie mi detesta, non ho più voglia di studiare...» Non alzai lo sguardo, ma quando tacque, capii che ne era sorpreso, oppure confuso. «Quando torni?» «Non torno.» Spalancò le palpebre. «Come non torni? Lo sanno?» Scossi la testa. «Non gli importerebbe.» «Non credo», ribatté. «Non voglio che lo sappiano...» «Hai già deciso?» Annuii. «E non mi hai nemmeno mai dato un'opportunità. Perché?» Sollevai le sopracciglia, poi sorrisi. «Non dire stupidaggini.» «Tanto ormai lo sai che mi piaci da sempre. Io non ti avrei mai fatta soffrire. Non mi ti sarei lasciata scappare. Non avrei mai fatto in modo che tu cambiassi a causa mia.» Non seppi che dire, riflettendo cronologicamente su ogni sua parola. «Mi trovi cambiata a causa sua?» chiesi. «La persone che se ne sta andando è totalmente diversa da quella che è arrivata qui un anno e mezzo fa.» Mi colpì. Almeno qualcuno se ne era accorto. Come step finale, credevo che le persone, dopo avermi rovinato la vita e stravolta, non se ne sarebbero neppure accorte. Speravo che sarebbe stato Jake a capire che non ero più la stessa persona. Ma al diavolo Jake, era un'illusione. Solo un'illusione. «Credo che non ti abbia dato un'opportunità perché ho conosciuto Jake e mi sono innamorata di lui in modo disperato e patetico.» «Altrimenti?» «Altrimenti... Be' credo che se ti ho baciato tre volte, qualcosa voglia dire.» «Cosa?» insistette, deglutendo forte. Era sbagliato, ma mi piaceva piacere così estremamente. Mi guardò negli occhi. I suoi erano ambrati, di un colore più chiaro di quello della birra. «Ho fatto di più ieri, vero? Non me lo vuoi dire perché non vuoi che pensi male di me stessa.» Distolse lo sguardo. «Penso...» «Simon, dillo!» «Forse... Forse ti ho toccata.» «Mi hai... toccata?» mormorai. Deglutì un'altra volta, poi annuì guardando altrove. «Ma me l'hai chiesto tu, lo giuro.» «Toccata dove?» Espirò. «Alexis, smettila. Toccata.» «Prima base?» «Smettila... è già difficile non pensarci.» «Ma non davanti a tutti, vero?» Si accigliò, e poi scosse immediatamente la testa. «No, no. Ma che ti salta in mente. Basta pensarci, eravamo ubriachi, non conta.» Balzò giù. «Se fossimo stati sobri non l'avresti fatto?» sussurrai. «Se tu l'avessi voluto, ovvio che sì.» Scesi anche io. «Okay.» Misi i pugni nelle tasche. «Okay.» «Allora ciao, o addio, o quel che sia.» «Ciao, o addio, o quel che sia», disse. Sorrisi a labbra serrate, e poi me ne andai. Salii lentamente per le scale, mi sentivo avvilita. Rientrai in stanza e mi stesi a piancia in sotto sul letto. Volevo che lì ci fosse qualcuno con me. Non riuscivo a fare a meno di piangere, ma me lo concessi. Dovevo dire addio a quel magnifico posto dove avevo vissuto bellissime esperienze. Dopotutto, era lì che per poco avevo scoperto la felicità. Qualcuno bussò alla porta, ma io non risposi. I colpi divennero rapidamente più potenti. «Lexie! Apri questa fottuta porta.» Rimasi in silenzio, sperando che avrebbe creduto che non ci fossi. Ero colpita dal suo tono duro e amaro. «Lo so che sei lì, ti ho sentita piangere. Apri, cazzo, apri adesso.» Continuò a bussare e a richiamarmi per i seguenti cinque minuti, poi smise. «Ti prego, tesoro, apri. Ho bisogno di te.» Qualcosa si ruppe nel mio cuore, ma non dissi niente. Anche la sua voce prese una sfumatura diversa, in qualche modo più dolce. Affondai il volto nel cuscino. «Non ho voglia di parlare», dissi con voce rotta dal pianto. «Aprimi.» «No, Jake. Vattene, io non ti voglio.» «Io sì. Ti voglio da morire. Sei mia, dimmelo, non riesco a dormire, a mangiare, a fare un bel niente perché... Questa cosa mi ha fatto uscire di testa. Dimmelo che sei mia, apri questa fottuta porta.» No, non gli permettevo di dire certe cose. Mi alzai e spalancai la porta. «No, non sono tua Jake. Non sono il tuo giocattolino personale. Prenditi le responsabilità di ciò che dici, di ciò che fai. Non farò mai più lo sbaglio di tornare con te, da te. Tu mi hai persa per sempre!» Ebbi il tempo di dire l'ultima parola, poi entrò in stanza e sbatté potentemente la porta alle sue spalle. Il respiro mi si mozzò in gola per il colpo. «No, non fare la stronza adesso! Io ho ragione, tu hai torto. Tu ti sei fatta palpare dal mio migliore amico. Ti sei strusciata su sessanta cazzi diversi!» «Non parlarmi così, Jake!» strillai. «Sei tu dalla parte del torto!» «No, sei tu che mi tratti come un oggetto di tuo proprietà! Faccio quel che mi pare della mia vita! Solo tu puoi circondarti di ragazze? Cosa ti fa pensare che io non possa fare altrettanto? Io sono single! Non sono la tua ragazza!» Un muscolo gli guizzò sulla mascella, mi espirò di rabbia sul naso. «No, sei mia.» «NO! Non sarò mai tua. Scordatelo.» «Scordati tu di essere di chiunque altro. Li seppellisco, hai capito? Non sto scherzando!» «Devi controllare la rabbia! Sei matto. Sei proprio... Mmh! Che rabbia. Tu sei fuori di testa!» Oddio, e adesso sorrideva. La fossetta! Che colpo basso. «Non c'è niente da ridere, io te e qualche poveraccio finiremo su qualche trasmissione di tragiche storie d'amore, con noi due sotto terra e tu in carcere, se non ti dai una calmata!» Rise, ed io cercai di non fare lo stesso. «Vattene, idiota.» Ora era di nuovo serio. «Non mi do nessuna calmata, e non me ne vado. Questa è la bellissima camera della mia bellissima ragazza, punto.» «Mettiti l'anima in pace! Ti sto rifiutando.» «Io rifiuto il tuo rifiuto.» «Sei pesante!» «Tu sei psicopatica. Prima che mi innamorassi di te, non mi avresti potuto avvisare del fatto che sarebbe stato così complicato?» «Dato che amarmi è così ''penoso''e "complicato", potevi innamorarti di qualcun'altra. Qualcuna non psicopatica come me. Qualcuna come Lucille!» Incrociai le braccia al petto. «Non dire cazzate, lo sai che la odio Lucille.» «A me sembra che le guardi le tette!» «Be' infatti ti mancano dieci gradi, sei una talpa.» «Non è divertente!» «Allora perché stai ridendo?» chiese con un sorriso asimmetrico. «Non sto ridendo.» Mi morsi internamente le guance pur di non dargliela vinta. «Ti conosco, non vedi l'ora di ridere, ridi.» «No!» tornai seria. «Ti ho visto mentre le guardavi le tette. Ammettilo, avanti, pensi che sia stupida?» «Un po'.» «Nemmeno questo è divertente!» «Non le guardo le tette, piantala», disse secco. «Guardo solo le tue di tette.» «Non puoi farlo. Potevi parlare delle mie tette quando stavamo insieme, non adesso.» «Stai zitta, tu sei mia e quelle sono le mie tette.» Mi fissò il petto. «Basta, cazzo!» sbottò. «Basta tu, smettila di guardarmi.» «Sai da quanto non facciamo sesso? Dal matrimonio. Lexie, ho bisogno di te ventiquattro ore su ventiquattro, tu non puoi farti toccare da nessuno che non sia io.» D'un tratto mi sbatté per i fianchi contro una parete. Si sentì il rumore del mio respiro che si arrestava in gola. «Che discorsi profondi», boccheggiai. La punta del suo naso sfiorò quella del mio. Il suo corpo solido e scolpito premette contro di me. Anche a me mancava disperatamente ed ostinatamente. Respirò su di me, appoggiando i gomiti sul muro in prossimità delle mie orecchie. Mi guardò negli occhi, volevo morire perché ogni volta quei raggi celesti, azzurri e blu, che si dipartivano dalle pupille, erano sempre più magnetici e streganti. Seducevano in un modo impressionante, suggestionando le mie decisioni e rendendomi inerme ed indifesa. Vidi il suo cuore pulsare, facendo fremere il petto e vibrare leggermente il tessuto della maglietta a mezze maniche. Eppure si gelava. Il pomo d'Adamo fece una danza dall'alto al basso, e mentre i suoi occhi erano ancorati alle mie labbra, il mio cuore fece una capriola. Sentii qualcosa irrigidirsi contro il mio piccolo stomaco. «Come non detto», disse col fiato corto. Si morse il labbro inferiore, avvicinandosi d'un altro passo. «Come fai...» «A fare cosa?» mormorai. La mia voce era irriconoscibile, debole, ansimante e desiderosa. Qualcosa gli scintillò degi occhi sgargianti e profondi. Appoggiò le mani quasi roventi sui mie fianchi, diffondendo un calore paralizzante fino alla mia vita. Un brivido si arrampicò su tutta la schiena. «Non riesco ad essere arrabbiato con te. Giuro che penso di prenderti in continuazione, non ce la faccio più.» Una fiamma mi si accese nel petto. A volte mi faceva sentire niente, ma altre... Non riuscivo a respirare. Usò una mano per scostarmi i capelli dal volto, poi mi sfiorò la guancia con l'indice, un tocco vellutato. «Ho immagini di te nella mia mente... Se solo potessi capire.» Deglutì forte. Sospirai. «Di me?» «Sì. Di te. Di te a letto, nella doccia, di te nuda.» Si morse il labbro inferiore, fissando le mie. Tremai. «Non ti voglio più vedere vestita, non si possono coprire certe belle cose...» Lentamente, le mie palpebre si chiusero l'una dietro all'altra. Serrai le cosce tra di loro, mordendomi forte il labbro finché non avrebbe sanguinato. «Nuda e bagnata.» Mi prese un colpo quando diede un pugno contro il muro. Emise un gemito dalla gola serrata. Anche quello era provocante. Mi si avvicinò all'orecchio, le palpebre mi si riaprirono con uno scatto quando sentii le sue parole. Mi bagnai di più e avvertii una pulsazione ardere tra le mie cosce. Mi chiese se volessi sentirlo parlare, ma non riuscii quasi a rispondere. La risposta mi pareva scontata. Annuii in modo impaziente. Mi sollevò disponendo gli avambracci sotto alle mie cosce. Sentii la sua erezione premere nel punto più bollente del mio corpo. Tutti i libri caddero dalla scrivania quando li spinse a terra per farmi spazio. Spinse contro di me. «Jake», lamentai, accarezzandogli i capelli morbidi e chiari. Tutto di lui aveva un ottimo sapore ed un ottimo odore. Strinsi le mie braccia attorno al suo collo. La sua pelle scottava. Sfiorai la punta del suo naso con quella del mio. «Ti meriti di passare la notte più stravolgente della tua vita», lo citai, con un sussurro contro il suo orecchio. Sorrise, e in un brevissimo secondo mi buttò sul letto. Si resse sui gomiti sopra di me, guardandomi negli occhi. Affogai nell'oceano in tempesta che contenevano. Le sue labbra calde lambirono le mie. Sentii la sua lingua sfiorare la mia, e di lì in poi il bacio divenne più profondo. Afferrai l'orlo della sua maglietta, gliela sfilai e la gettai sul pavimento, ansimando. Oh Dio, quanta roba avevo a disposizione per me. Potevo toccare tutto quanto. Si accorse del modo in cui lo stavo attentamente perlustrando, poi sorrise. Con il dito sfiorai la sua pelle dall'incavo delle clavicole, tra i pettorali, e poi lungo ogni curva degli addominali perfetti. Volevo rifarlo con la lingua. «Mmh...», gemetti, quando si strofinò su di me. Abbassò la mia zip e arrotolò i jeans verso il basso, finché non riuscì a sfilarmeli. Mi tirò via anche la felpa. Quando vide che non portavo il reggiseno mi guardò come se fossi un raggio di luce in un tunnel. Mi sfiorò il capezzolo con la lingua. Io mi riempii e svuotai d'aria molto lentamente. Sollevai i fianchi, li mossi e li mossi contro ai suoi. In quella stanza faceva molto caldo. «Oh...» sospirai. Osservai i suoi muscoli irrigidirsi, contrarsi e guizzare sotto alla sua pelle profumata. Lo toccai di nuovo, a lui sembrava piacere estremamente. Mi morsi il labbro quando rilasciò un altro piacevole e profondo gemito. Appoggiai la mia mano sulla parte più alta dei suoi jeans. Una scelta audace. Jake smise di reggersi sopra di me, ma non mi sentivo schiacciata. Stava boccheggiando. Gli addominali divennero duri come l'acciaio. Mi piacevano quelle vene sotto pelle, che mediavano pulsazioni così rapide che per un attimo mi fecero pensare di rallentare. Andai più piano e lo toccai delicatamente. «Non fermarti mai, tesoro.» Mi baciò dietro all'orecchio. Aprii la zip ed infilai la mia mano nei suoi boxer. Il suo cuore esplodeva quanto il mio, a contatto con il mio petto. Appoggiò la sua mano sopra alla mia per darmi il ritmo e dopo pochi secondi cominciò a massaggiarmi il seno. Palpitai. Aumentai di velocità sentendo il suo petto riempirsi sempre di più d'aria, e i suoi respiri diventare gradevolmente rumorosi. «Alexis...» Tutti i suoi muscoli si contrassero sopra di me. Venne dopo una serie di spasmi e gemiti profondi, di gola. Il suo respiro tornò regolare e sereno. Posò la testa contro il mio seno ed inspirò. «Ti amo, davvero. Giuro che voglio fare l'amore per una settimana ma ho troppo sonno. Non dormo da giorni. Scusa.» Sbadigliò. «Ma sono tutta bagnata», piagnucolai contro il suo orecchio, cercando di non ridere. «Oh, ti prego non dire così», gemette. «Nuda e bagnata», mormorai. «Domani mattina», disse con voce roca, ad occhi chiusi. «Domani mattina», gli baciai la mascella perfetta. Mi strinse forte sotto di sé. «Domani mattina facciamo sesso e poi ci sposiamo.» Un pugnale mi penetrò nel cuore. «Sì», bisbigliai. Un nodo mi si strinse in gola. «Ti amo.» «Anche io», dissi. Gli accarezzai i capelli biondi ed inspirai il profumo del suo dopobarba. Una lacrima mi rigò la guancia, scendendo lungo il mento. Il volo era all'una di notte e la sveglia segnava le ventidue e mezzo. Forse avevo ancora il tempo di dormirci insieme un'ultima volta. Presto però sarebbero rientrate Amber e Julie... «Jake», lo chiamai scuotendogli il braccio. Mugolò parole incomprensibili, premendo la sua testa contro il mio seno. «È tardi», sussurrai. «Stt.» Incastrai le mie dita tra i suoi capelli. Sfiorai la sua pelle dalla spalla lungo tutto il braccio, fino al palmo. Strinsi la sua mano saldamente e poi chiusi gli occhi. «Ti vestirai di bianco?» sussurrò. Temetti che parlando la voce mi si sarebbe rotta. «Cosa?» «Domani.» Non dissi niente, sospirai e basta. Si addormentò più in fretta di quanto faceva di solito. Di solito non dormiva. Nella notte, in genere, mentre ero nel letto, lo sentivo farsi la doccia, guardare partite di football. Oppure mi spostava i capelli dal viso, guardandomi ad occhi chiusi. Non ero abituata a quello. Una piccola catena fuoriusciva dalla sua tasca. La tirai fuori. Era la mia collana; lo zaffiro che avevo trattato come se non avesse valore in un momento di rabbia. «Mettila. È tua», mormorò. Annuii e la tenni nel mio palmo. Richiuse gli occhi e si addormentò. Attesi ad occhi aperti che si fossero fatte le ventitré. Quando il numero lampeggiò di blu nello schermo della sveglia, mi sottrassi lentamente alle sue braccia. Fu una missione decisamente ardua. Le mie due compagne di stanza ancora non avevano fatto ritorno... Era strano. Julie tra l'altro non poteva essere con Jonas perché lui presto sarebbe partito con me. Strinsi le maniglie delle mie valigie nelle mani e nel buio, delicatamente, accostai la porta. La chiusi e mi inoltrai nel corridoio vuoto; era più o meno uguale alla prima volta che l'avevo visto, ma giù dalle finestre non si vedeva più il bosco. Era stato potato da qualche settimana, e in questo modo era libera la vista all'oceano. Un'anta era rimasta aperta. Si sentì nell'aria l'odore della salsedine e quello dell'erba appena tagliata. Percorsi la scalinata e trascinai i bagagli fino all'ingresso. «Ehi, Alexis. Dove stai andando?» mi chiese Fred dalla portineria. «Vacanze di Natale», dissi forzando un sorriso. Lui si accigliò. «A te non piace la tua famiglia. E poi, quei due valigioni per una settimana?» insistette. Io sospirai. «Puoi dirgli che mi dispiace tanto?» Fred all'inizio rimase confuso, poi capì ed annuì. «Vai via?» «Sì.» Si diresse verso la porta, e una volta che mi raggiunse mi abbracciò. «Fa' buon viaggio.» Annuii, sentendo le lacrime pizzicarmi gli occhi e un groppo salire in gola. «Sei l'unica studentessa che mi è simpatica! Che peccato», borbottò Fred. Sorrisi. «Mi mancherai.» «In bocca al lupo, mi raccomando», disse accarezzandomi la testa. Mi strinse un'ultima volta, e poi mi allontanai facendo ciao con la mano. Il custode rientrò. Il campus era piuttosto vuoto, l'istituto rabbuiato e sopra di esso vidi una fitta coltre di nubi. Il terriccio era bagnato. Il cellulare mi squillò, doveva essere Jonas. «Sono qui fuori.» «Un attimo. Arrivo.» Il vento squassò i rami degli alberi, sforzandomi i capelli come se fossi in una moto alla massima velocità. Uscii dal cancello e vidi la macchina sportiva di mio fratello accostata vicino al marciapiede. Scese dall'auto e si avvicinò. Mi sorrise e prese in mano le maniglie delle mie valigie. «Tutto okay Lex? Come mai tutta questa roba? Staremo due giorni.» «Passo il Natale con la nonna Cecilie, dopo esser stata a New York. Non ho esami per un bel po'.» Jonas perplesso annuì. Era uno di quelli che, talmente fiduciosi, credevano sempre alle mie bugie. «La nonna Cecilie stravede per te, le farà molto piacere. Poi c'è Brandon.» Io sorrisi. Non amavo particolarmente mio cugino, ma di certo non era peggio di ciò che mi lasciavo alle spalle. La macchina partì. «Alexis, lo so che in questo periodo non siamo andati particolarmente d'accordo... Volevo dirti che mi dispiace. Viviamo a due passi eppure non ci parliamo mai. Lavoriamo nello stesso ospedale eppure spesso mi ignori. Dovremmo fare ciò che facevano prima insieme. Vedere film, mangiare fuori. Ti ricordi? Eravamo inseparabili. Abbiamo tutto il tempo del mondo per stare insieme, quando torni dalle vacanze dovremmo passare qualche serata tu ed io. Voglio recuperare...» Mi bruciò la gola. Gli sorrisi ed annuii, ma non riuscii a spiccicare parola. La voce mi si era sicuramente rotta. «Anche io», dissi piano. «Ti voglio bene, Jonas.» «Te lo dico perché tra due mesi... Be' tra due mesi...» «Tra due mesi?» chiesi accigliandomi. Guardò dritto difronte a sé. «Vorrei lavorare in un ospedale dell'Emergency. Finirei la specializzazione lì. Sono a corto di cardiochirurghi, c'è bisogno d'aiuto.» Strabuzzai gli occhi. «No! Cosa? Ehi, vuoi lavorare in un ospedale dove ti pagheranno una miseria, di un paese in guerra? Scherzi? No, Jonas, apprezzo il loro lavoro ma lo fanno loro. Non mio fratello!» «Alexis, il terzo anno l'ho fatto nell'esercito. Se non mi è successo nulla allora cosa ti fa pensare che succederà adesso?» «Hai scampato la morte! Grazie a Dio. Se l'avessi saputo non ti avrei permesso di partire e mettere a rischio la tua vita per un paese che manda la gente a morire per mano di chi lui stesso ha armato. Né tanto meno ti permetto di andare chissà dove. Non sto dicendo che non è una cosa splendida ma, Jonas, fallo per me. Non posso rischiare di perdere qualcun altro.» Tacque, poi sospirò. «Non chiedermi questo. Per favore. Non mi accadrà nulla, lo sai. Se fosse pericoloso te lo direi.» Che ansia. «Bene, quando avrò preso la laurea mi arruolerò come specializzando nell'esercito. Se tu parti.» «È un ricatto?» «Sì.» Digrignò i denti, stringendo le mani attorno al volante. «Solo per uno o due mesi...» «Io mi farò tutti e cinque gli anni in Siria.» «Non scherzare...» «Non sto scherzando.» «Lo sai che nell'esercito non puoi portarti i trucchi? Né le tue creme.» «Tu non potrai giocare a calcio in Sudan.» «Parliamo d'altro. Quando arriviamo andiamo a casa? Oppure in hotel?» Quel radicale cambio d'argomento, spense la mia voglia di ribattere. A casa di papà? Mi assalì la paura, l'angoscia. «Vediamo dopo.» Mi rannicchiai sul sedile e chiusi gli occhi. Il viaggio in aereo fu tranquillo e sereno, io e Jonas parlammo del tempo, dello studio, del suo lavoro. Mi parlò anche di Julie, lui lo faceva sempre. Evidentemente non sapeva che lei adesso mi odiava, ed io non avevo intenzione di parlargliene. Né di accennargli alla motivazione. Se lei era così arrabbiata con me per ciò che c'era stato tra me e Simon, evidentemente provava ancora qualcosa per quest'ultimo. Quel fatto doveva rimanere sepolto. Mi guardai un film dal computer e per il resto del tempo ascoltai un po' di musica, osservando le nuvole al di fuori del finestrino. Jonas in aereo aveva sempre la nausea, e quando divenne pallido, si alzò dal sedile con uno scatto. «Tutto bene?» Scappò verso il bagno, perciò immaginai stesse per rimettere. Atterrammo dopo diverse ore. Jonas andò a ritirare i bagagli, e in quel momento il cellulare mi squillò in borsa. Una morsa mi strinse il cuore. Lo tirai fuori cautamente, per poi vedere il suo nome lampeggiare sullo schermo. Rifiutai la chiamata. Squillò un'altra volta, ma lo ignorai e alla fine decisi di spegnere il cellulare. Non potevo parlargli adesso, non ce l'avrei fatta. Quanto sarebbe passato dalla prossima volta che avrei sofferto a causa sua? Non potevo, non avevamo risolto nulla in quella camera, prima. Dovevo tutelare me stessa, proteggermi, non comportarmi come al solito, da incosciente ed irresponsabile. Soffrire rende maturi, ed io avevo imparato molte cose dalle mie ultime esperienze. "Chiamami." Il cellulare non smise di vibrare. Espirai e mi coprii il viso con entrambe le mani. Strusciai il dito sullo schermo, e prima che potessi parlare, sentii qualcosa d'amaro bruciarmi in gola, un bruciore nello stomaco. «Lexie, ma dove sei finita? Smettila di scappare! Di ignorarmi, che succede adesso? Credevo che...» «Basta, Jake, basta parlare.» L'acqua mi salì agli occhi. «Che vuol dire?» Nel suo tono sentii tanta disperazione. «Vuol dire che non arrivi mai in tempo.» «Ehi, aspetta. Dove sei? In camera non c'è più la tua roba.» Mi si ruppe la voce e le lacrime sgorgarono sempre più rapide giù dai miei occhi. Non seppi che dire. «Sei ancora lì? Lexie? Dove sei?» «Grazie, grazie di cuore. Alla fine dei conti è stato bello...» «Ma di che diavolo parli? Ti avrei accompagnata io in aeroporto, me ne ero dimenticato. Quando torni? Se me l'avessi detto potevo venire con te.» «Non posso tornare lì. Insomma, da chi torno?» «Da me!» «Tu mi vuoi un giorno sì e un giorno no...» singhiozzai. «Ma che dici. Io ti voglio sempre. Solo che... Facciamo troppe cazzate. Torna, giuro che la smetto, mi comporterò bene, lo prometto, ma tu torna. Come faccio io senza di te? Non scherzare, cazzo!» «È stato bello, okay? Ma è passato, Jake. È stato ciò che è stato. Ci siamo conosciuti, io ti ho amato veramente, ma siamo sempre allo stesso punto ormai. Voglio voltare pagina, e 'sta volta voglio farlo veramente.» «No, non dire cazzate. Smettila di dire cazzate su cazzate. È stato un anno di merda, ma è un inizio, okay? Non una fine. Possiamo ricominciare, e questa volta andrà meglio, andrà bene, te lo prometto.» «Ti amo.» Deglutii il groppo salito alla gola. «Ma allora di che parli?» gridò. «I-io... Mi dispiace, non posso», dissi con voce strozzata. «Torna.» «Ti amo tanto, spero che capirai», fu l'ultima frase che ci scambiammo. Poi camminai verso l'esterno dell'aeroporto. Un vento freddo mi accolse, lo stesso che mi aveva visto partire.

Amami nonostante tutto 2Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora