22. Belong to you

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22. Appartenere a te.

«Quale piacevole sorpresa», disse Alex in tono sarcastico. Il nostro breve riconciliamento tra fratelli era già sull'orlo del precipizio. «Quando tu hai avuto bisogno di me io ti ho aiutato. Ricordi?», chiesi sospirando. «Sì.» «Vieni in Florida. Cercami al college. Due biglietti aerei non dovrebbero essere nulla per te. Sei milionario o qualcosa di simile, giusto?», chiesi io. «Qualcosa di simile.» Riagganciò. Io scesi giù dall'auto, inspirai a pieni polmoni l'odore di salsedine e di erba appena tagliata. La gente brulicava per il campus come formiche in un formicaio. Non avevo mai visto tanta gente; quando poi vidi Liam Payne, Cass ed altri che sapevo frequentassero la Columbus, capii. I famosi invasori erano arrivati. Gente scaricava la loro roba dalle auto, altri leggevano o messaggiavano, chi chiacchierava tranquillamente mentre altri come me osservavano il tutto assorti nei loro pensieri. Con la mia borsa sulla spalla percorsi la stradina che portava all'ingresso dell'istituto, tentando di passare inosservata. «Oh mio Dio, Alexis!», gridò Cass alle mie spalle. Io, essendo ormai stata beccata, mi strinsi nelle spalle e mi voltai. «Ehi», sibilai, quasi impaurita dalla tempesta di domande che stava per pormi. Cass era persino più petulante di Julie. «Stiamo davvero nello stesso campus adesso?», chiese con voce scintillante ed echeggiante in mezzo a quei rumorosi brusii. «Così pare», sorrisi io. «Meno male che ti ho vista. Ricordi che dovevi farmi da damigella?», chiese lei. «Sì..?» «Be' la mia amica di Los Angeles si è rotta la caviglia facendo parkour. Non potrà farmi da testimone perciò vorrei che lo facessi tu. Lo so che mi reputi noiosa e chiacchierona ma per me sei davvero importante e odio i periodi in cui non siamo unite. Come adesso. Ma sappi che ti penso sempre, penso sempre a come stai e che...» «Sì», interruppi il suo dolce monologo e l'abbracciai forte. «Sul serio? Fantastico! Starai nel mio tavolo vero? Dimmi di sì! Io, te, Bill, Anna, Matt, Andrew, Ja...» «Alt alt! Jake. Avevo scordato Jake. Cass, non posso vederlo», dissi scuotendo il capo. Della delusione le balenò nello sguardo d'un tratto spento. «Non puoi non venire al mio matrimonio...», bofonchiò in tono basso e rattristato. «Io voglio venire ma credo tu sappia come siano andate le cose», balbettai. «Sì, più o meno. Nessuno mi spiega niente qui», sbuffò lei. «Non c'è nulla da spiegare», dissi io. «Devi venire. Io ti voglio lì. E anche Bill, Annabelle, Matt... Andrew non fa altro che dirmi e ridirmi di chiamarti, di cercarti. Vogliono tutti sapere come stai», raccontò. «Tutti tranne Jake», feci un sorriso privo di gioia. Lei sospirò. «Non posso sedermi in un tavolo con lui e la sua famiglia. Non lo farò, Cass. Ma voglio esserci al tuo matrimonio». Cass sorrise a trentadue denti. «Va bene. Farò un tavolo con te, Julie, Travis, Jeremy e anche Simon se promette di non fare battute sconce», disse d'un tratto super contenta. «Va bene. Glielo dirò», ridacchiai io. «Mi raccomando! Alla mia cresima Jake e Simon hanno rotto la finestra del ristorante con un pallone da football ed hanno dato la colpa a mia sorella di due anni! Metti bene le cose in chiaro.» Scoppiai a ridere ed annuii. «Sono nel padiglione C», mi informò. «Tu?», chiese. «Nel B, siamo vicine», sorrisi in modo autentico. Cass mi piaceva dal primo momento che l'avevo vista a Los Angeles. Sentii un braccio stringersi potentemente sul mio collo e circondarlo. «Così mi strozzi, Simon», boccheggiai, dandogli un colpo con il gomito. «Parli del diavolo e spuntano le corna», disse inacidita Cass. «Parlavate di me?», si accigliò lui. «Già. Di te e delle tue cattive maniere», dissi liberandomi. «Evans sta minacciando metà corpo studentesco per farti ritornare. "Gilinsky la boccio! Gilinsky finirà col fare il patologo dei sotterranei ospedalieri..."», mimò la sua voce in una maniera incredibile. Era esilarante e non potei fare a meno di scoppiare a ridere fragorosamente. Evans amava quel tipo di minacce. Sapere che però un professore credesse così tanto in me... Mi faceva molto piacere, mi rendeva felice. Voleva dire che qualcuno reputava che io avessi un valore. «Ti scorto fino all'aula per evitare che tu fugga», disse, facendo un sorriso forzato a Cass ma nel contempo trucidandosi a vicenda con lo sguardo. Tra i due non scorreva buon sangue. Mi trascinò a forza fino al portone dell'istituto, ignorando i miei lamenti. Simon era l'unico a conoscenza di J fino ad allora, anche se non sapeva di cosa si trattasse era stato lui a trovare quel bigliettino, quella sera. Forse avrei potuto parlargliene, forse mi avrebbe dato un consiglio. Non mi sentivo più sicura in nessun luogo.
«Perché non la smetti di spingere», gemetti mentre mi trascinava per il corridoio affollato.
«Alexis!», gridò Drake in lontananza. «Ci mancava solo l'amichetto gay», sbuffò Simon, tirandomi per un braccio. «Che cosa hai detto?», tuonai, rabbiosa. «Niente, niente.» «Ah, bene», strinsi lo sguardo, e nel frattempo Drake ci aveva raggiunti. «Ho lezione», dissi, prima di fuggire da entrambi verso l'aula di psicologia. «Ehi! Ma dove vai! Alexis!», gridò Drake, facendosi sentire da tutti. Avevo tentato di nascondermi dal momento in cui avevo messo piede nell'istituto, ma adesso tutti mi fissavano e mormoravano. Lo odiavo. Odiavo quel posto, ed odiavo che a causa di Jake dovessi essere di nuovo sulla bocca di tutti. Come a Manhattan, dove non si parlava d'altro che il triangolo amoroso tra me, Matt Cooper e Mia Di Laurentiis. Anche se io non ne ero a conoscenza finché non sentii delle chiacchiere di corridoio. Pensare a Manhattan mi fece pensare a papà, e non volevo pensare a papà. In genere sentivo le lacrime pungermi gli occhi e qualcosa pizzicarmi la punta del naso. Odiavo quando la gente si accorgeva dei miei occhi d'un tratto lucidi, e mi fissava. Quando entrai chiusi la porta alle mie spalle, sperando che la lezione non fosse già cominciata. «Scusi tanto per il ritardo», bofonchiai, sentendo gli occhi inquisitori di Evans addosso. «Gilinsky ha una possibilità su mille di non essere bocciato», sul viso gli si increspò un gran sorriso. Julie mi fece un fischio da infondo all'aula, dove la vidi seduta accanto ad Amber. Amber non mi dava una buona impressione. Inizialmente sì, ma ora ero certa che il suo carattere non mi piaceva. Era ammutolita e più che uscire con i ragazzi sembrava una loro fan. Mi andai a sedere accanto a Julie, quatta quatta. «Ti ho aspettato per più di venti minuti!» mi sgridò. «St, Julie, disturbi la lezione», intervenne Amber, con la penna puntata sul suo foglio. Julie guardandola corrugò la fronte, ed io feci una smorfia per evitare di ridere. Amber tornò a guardare la lavagna, e Julie mi diede una gomitata. «Non cominciare», mi ammonì. Roteai gli occhi al cielo. «Ero in autobus stamattina», esordì Evans. «Interessante», bofonchiai, facendo scarabocchi sul banco. «Ho visto l'alba. Ma non un'alba come le altre. La stavo guardando con qualcuno che forse non ne avrebbe più vista un'altra», continuò, balzando giù dalla cattedra dove era seduto. Fece una passeggiata, da una parete all'altra dell'aula. «Pensavo di fare lezione ma la psicologia nasce dalla filosofia infondo, perciò... Stamattina, stamattina presto, saranno state le cinque o giù di lì...», disse, «ho visto l'alba. Ed era davvero davvero uno spettacolo. Sapete che in Florida non piove mai? Eppure quest'anno è stato molto più piovoso degli altri. E pioveva stamane. Il cielo era di così tanti colori differenti, era così bello ed io non l'ho nemmeno guardato. Accanto a me era seduto un'anziano, con gli occhiali, la barba bianca, la sua pelle era solcata da rughe profonde e sembrava...» «Un vecchio decrepito?», intervenne qualcuno in prima fila, sollevando qualche stupida risata. «Un vecchio decrepito, Signor Wilden. Un vecchio decrepito, esattamente», disse con quel lieve sorrisetto in grado di confonderti le idee. «Un vecchio. Era seduto accanto a me ed io correggevo dei compiti, non scorgendo minimamente cosa ci fosse fuori dal finestrino. Ma poi lui ha parlato. "Sono così vecchio che mi son reso conto che ho molti più ieri che domani. Io sono alla fine, mi devo godere le ultime albe che vedrò. Ma dovresti farlo anche tu."», sembrava di avere il signore dell'autobus proprio in quella classe. Aveva imitato un tono roco e cupo. «Perché nessuno si gode l'attimo?», domandò. «Perché pensiamo di poter averne altri mille», disse Paige Pieterse, seduta in prima fila. «Orazio ci dice "Carpe Diem"... Non che mi aspetti che voi sappiate qualcosa di latino ma... Non è inutile illudersi sul fatto che l'essere umano imparerà a non pensare al giorno vissuto o a non sperare per l'indomani e concentrarsi sull'oggi? Sul presente?», chiese rivolto alla classe. Sospirò e si risedette sulla cattedra. Qualcuno alzò la mano, ma lui borbottò e scosse la testa. «Bristol, voglio sentire Bristol.» Il mio cuore batté all'impazzata, tentai di nascondermi, ma le teste davanti a me si girarono una ad una, finché tutta la classe non mi puntò gli occhi addosso. «Signorina Bristol. Cosa ne pensa?», chiese, con un sorrisetto strano. «Non penso niente», dissi a bruciapelo. Sollevò le sopracciglia, sorpreso. «Non ha mai pensato di guardare un tramonto come se fosse l'ultimo?» «Quasi mai. Si gode l'attimo solo chi rischia di vederselo sfuggire. Chi sa che non potrà avere altre albe, altri tramonti. Ci si accorge di quello che si ha nel momento esatto in cui si rischia di perderlo per sempre. È inutile sperare che l'essere umano imparerà ad apprezzare le piccole cose: potrà farlo veramente una volta o due, magari per i primi bei tramonti o per le prime belle albe che vede. Ma poi smetti di cogliere il suo fascino perché sai che ne potrai essere abbagliato ancora», iniziai a pensare ad alta voce, ignorando la presenza della gente in quella classe. Evans sorrise. «Già. Ma è una visione troppo pessimistica per me da accettare», disse costernato. «Realistica», aggiunsi io, senza collegare neppure cervello e bocca. Vidi Paige borbottare qualcosa alla ragazza seduta alla sua destra e distinsi un «che avevo detto di diverso io...», o qualcosa di simile. «Lei ha esposto lo stesso concetto in una frase, senza argomentare, in modo sciatto e scontato masticando la sua chewing-gum. La pregherei di sputarla», disse il professore, alzando il tono di voce ed indurendo lo sguardo. Paige rossa in volto, più dalla rabbia che dalla vergogna, si diresse verso il cestino e la sputò. Fece una smorfia e tornò seduta. «Grazie tante signorina Bristol. Ci racconti della migliore giornata della sua vita». Impallidii. Evans era serio, nessun sorriso nasceva più sulle sue labbra e quello non era affatto un buon segno; non scherzava. Un silenzio religioso piombò nell'aula, gli occhi di tutti che prima erano concentrati su Paige guizzarono un'altra volta su di me con una rapidità stupefacente. Mi sentii così in soggezione che desiderai solo che sparire. «Il giorno... Il giorno più bello della mia vita?», balbettai. A scuola non ero mai stata una studentessa particolarmente sicura di sé e che si offriva volontaria. Puntavo sugli scritti dove davo il meglio di me, mentre per le verifiche orali ero più insicura. Evans annuì. Deglutii e ripresi aria. «Non è ancora arrivato», dissi e basta, in tono più duro di quanto non volessi. «E il più brutto?», domandò. Quel bastardo stava mischiando le carte in tavola. Odiavo rispondere alle domande di chi già conosceva la risposta, mentire non era permesso. «Qualche anno fa», dissi piano. «Ce ne parli.» Non capivo davvero dove volesse arrivare, lì, davanti a tutti.
«Il gatto. Mi morì il gatto», dissi in tono di sfida, sollevando la risatina di qualcuno. «Come si chiamava?», chiese, corrugando la fronte e sembrando davvero incuriosito. «Perché? Che importanza ha?», chiesi io, sentendo un bruciore divorarmi il petto. «Ha importanza.» «Comunque sia non la riguarda», mi alterai e digrignai i denti. Sollevò le sopracciglia, stupito da quella risposta sgarbata. «Pieterse. Vuole rispondere lei?», ruotò gli occhi verso Paige che ticchettava il banco con una penna. «No. Lasciamo rispondere alla Signorina Bristol. A quanto ne so di belle giornate non ne ha avute molte quest'anno, mi sbaglio?», chiese lei acida, marcando il mio nome con la stessa cadenza di Evans e voltandosi in mia direzione. Non seppi cosa dire, come nessuno in quell'aula e in quel momento. «No, non si sbaglia», inghiottii il groppo salito alla gola e alzandomi feci stridere la sedia contro il pavimento. Percorsi la scalinata e poi giunsi difronte alla porta. Tornai in corridoio dove presi un'ampia boccata d'aria. Le lacrime mi pungevano gli occhi, e qualcosa mi pizzicava la punta del naso; quando succedeva poi mi capitava sempre di piangere. Cacciai indietro l'acqua dei miei occhi e strinsi la borsa contentente la rinuncia all'Università nella mia spalla. Quel luogo non era più fatto per me -o più correttamente, io non ero più fatta per quel luogo. «Alexis». Mi aveva chiamata per nome? Quando mi voltai incontrai due occhi scuri sotto a degli occhiali neri e spessi. «Torna dentro», tuonò, con fare perentorio. «No! Non tornerò nella sua aula dove lei ogni volta mi espone al giudizio di tutti. Sa che c'è? La deve smettere di comportarsi come se le importasse di me, come se fossi una sua questione personale. Io sono la sua alunna, lei il mio professore. Ma non per molto. La smetta di strappare le mie lettere di rinuncia! La smetta! Non voglio stare qui. Non voglio frequentare le sue lezioni, non voglio frequentare questo college o nessun altro. Non serve minacciare nessuno, serve che capisca che per me, lei o la sua materia non sono niente. La psicologia è stato un passatempo l'anno scorso, me la cavavo sì, ero brava. Ma adesso non voglio più saperne niente», sfiatai. Lui rimase impassibile per qualche secondo. «Tu non eri brava. Tu sei brillante ed eccellente come mai ho visto in trent'anni di mestiere. Torna dentro, adesso!», gridò, richiamando l'attenzione di tutti gli studenti che camminavano per il corridoio. «Per cosa? Eh? Per farmi giudicare da tutti?», strillai. Non avevo mai urlato contro ad un professore in quella maniera. Scosse il capo e serrò le mascelle con disapprovazione. «Hai le basi, hai la pasta. Ma non hai la volontà. Entra e riprovaci, o consegna quella maledetta rinuncia e molla. Ma sappi che la vita ti prospetta un lavoro in un ristorante, magari. Non di più, niente per il quale il tuo cervello servirà.» «La pasta eh? La pasta dei Bristol, la pasta di mio padre, è quello che intende. Mi conosco abbastanza da sapere che io non c'entro niente con lui», replicai. «Oh, lo conoscevo. Lo conoscevo bene io tuo padre», sorrise in modo triste. «È tremendamente dura convivere con la mancanza di un buon padre. Ma scommetto che lo è molto di più convivere con la mancanza di chi stava imparando ad essere un buon padre». Le sue parole erano coltellate nel petto. La gola mi bruciava. «Cosa vuole da me?», dissi piano, esausta, con voce strozzata. «Cosa vuoi da te stessa?», chiese lui, facendo nascere due rughe sulle guance. «Non lo so», sospirai. «Non lo so».
«Impara a dire addio», fu l'ultima cosa che mi disse, prima di rientrare in aula. Sentii la sua voce al di là della porta che riprendeva a far lezione, mentre osservavo lo spazio occupato dal suo volto fino a qualche minuto prima. Erano passati solo quattro mesi da quando mio padre era morto, solo quattro dall'ultima volta che l'avevo sentito parlare. Avrei solo voluto chiamarlo di più, avrei solo voluto saperlo, avrei voluto dirgli che lo perdonavo, dirgli che il bene che gli volevo era infinito. Ma non potevo. Era tardi.
Il campus era leggermente più libero, mi sedetti sull'erba ed ascoltai il rumore del vento, fissando i rami scossi dalle folate. «Andrew», sorrisi spontaneamente quando una mano mi accarezzò la testa ed io sollevai lo sguardo. «Cognatina, che ci fai qui tutta sola?», chiese, con un gran sorriso. Mi misi in piedi, sperando che i miei occhi avessero smesso di essere lucidi. Mi lasciai abbracciare. «Tu cosa ci fai qui?», chiesi corrugando la fronte. «Ricordi che studiavo alla Columbus?», spiegò, dividendosi. «Sì, giusto. Ma credevo foste a Cambridge...», dissi accigliata e pensosa. Lui si incupì ed abbassò lo sguardo. «Noi siamo tornati», disse. «Mio fratello ha voluto rimanere lì a dare una mano», aggiunse. Sorrisi in modo forzato, «chiaro.» «Mi dispiace molto Alexis. Io ti adoro, la mia famiglia ti adora e se ti serve qualunque cosa...» «Va bene, Andrew. Grazie», lo interruppi, deglutendo il groppo salito alla gola. «Hanno scoperto qualcosa?», chiesi. Costernato scosse il capo. «Credano si tratti di omicidio», abbassò il tono di voce, «affari aziendali a quanto pare.» Corrugai la fronte. «Delle aziende della vostra famiglia?», domandai. «Già. Ma non si sa veramente niente di niente, pare stiano annaspando», sospirò. «Tuo padre?», chiesi preoccupata. «Tira avanti. Lo conosci», sorrise forzatamente. «Ma non è stato fortunato nella vita purtroppo», aggiunse, con una punta di dolore. «Ti prego, salutalo da parte mia.» «Certo», sorrise di nuovo. «Sono felice di essere nel tuo stesso campus, non mi scappi. E non scapperai nemmeno a Cass», ridacchiò. «Come procedono i preparativi?», chiesi curiosa. «Alla grande. Nel vero senso della parola. Credo inviterà metà America.» Io risi. «Vado, ho calcolo», disse prima di stamparmi un bacio sulla guancia e dileguarsi. Camminai a lungo per quella città universitaria, scoprendo luoghi del tutto nuovi come la serra nel quale facevano i corsi di erboristeria, o la seconda biblioteca che conteneva tutti i libri di filosofia, criminologia e psicologia. Alla fine mi sedetti su un muretto a leggerne uno in santa pace, per evadere da quel pianeta e immergermi in un altro. «Sai quanto a lungo io ti abbia cercata?», quella voce profonda mi fece sussultare. Chiusi il libro e mi voltai con uno scatto. Sorpresa allargai le palpebre e balzai in piedi. «Sei venuto da Los Angeles in un'ora?», chiesi confusa. «Ero già sulla strada del ritorno», spiegò, «stavo venendo qui da te. Dobbiamo parlare di molte cose. Ma non qui, vieni», fece un cenno con il capo indicando la strada fuori dal campus. Io obbedii e lo seguii fino al pick-up nero dove entrò. «Chi comincia?», disse una volta dentro, seduto nel sedile del volante. «Fa' pure.» «Istituiranno un processo a Manhattan. Tra un mese o due», esordì. «Mh, sì?» «Sì. E la tua testimonianza è essenziale, ma conoscendo il tuo carattere debole so bene che nostra madre potrebbe persuaderti.» «Tu conosci la ragazzina che veniva picchiata dalla madre e mandata a letto senza cena, non la persona che sono adesso», risposi in tono duro. Smise di fissare ciò che c'era al di fuori del finestrino anteriore e si voltò verso di me. «So bene che dal momento in cui l'ho denunciata ha ritirato tutti i suoi beni. Ho estinto la tua retta universitaria, anche per la Medical School. Quindi farai bene ad impegnarti, a frequentare e a fargli il culo. Tu non molli, non te lo permetto.» «Alex...» «No. Non è quello che avrebbe voluto tuo padre, avrebbe voluto che tu andassi avanti. Jonas me l'ha detto, dei casini che stai combinando...», il suo tono si indurì in una maniera stupefacente. Cosa gli aveva detto Jonas precisamente? Sperai che fosse all'oscuro della possibile gravidanza. «Pensa a quello che fai.» «Lo farò.» «Volevo dirti anche un'altra cosa», raccontò. «Ricordi la storia del milione di dollari?», chiese. Confusa annuii. «Ero qui per due cose; la prima era convincere il tuo ragazzo di riprendere a fare ciò che faceva prima per me. La seconda era passare anche un solo attimo con te, volevo vedere come stavi», confessò. «Potevi chiamarmi piuttosto che farmi prendere un colpo alle due di notte per i tuoi loschi affari», replicai. Il mio cellulare trillò proprio in quell'istante e un messaggio illuminò lo schermo. Era dalla banca. "È stato effettuato il versamento. Per conoscere le informazioni riguardanti il suo conto..." Strabuzzai gli occhi. «Quanto?», urlai. «Solo il milione di dollari che mi avevi prestato e qualcosa in più», disse con nonchalance. Lessi sullo schermo che si trattava di molto e molto di più che «qualcosina». Ero milionaria? Ero milionaria! «Sei impazzito? Prima cosa non sono stata io a darteli, e seconda cosa non posso accettare tre milioni di dollari! Di tuoi dollari. Non ti dico cosa fare della tua vita ma non voglio pensare da dove siano venuti quei soldi», dissi sincera. «È l'eredità del nonno Grayson. A voi erano andate le case e a me tre milioni di dollari. Li ho divisi in sette conti diversi. Non mi servono, ma mi raccomando, Alexis. Fanne buon uso, pensa allo studio e non fare sciocchezze», raccomandò. Non potevo credere che Alex, e dico Alex, mi aveva appena regalato tre milioni di dollari... Per non parlare delle spese universitarie. Ogni tanto la fortuna girava a mio favore. Con quei soldi avrei potuto fare quasi qualunque cosa, non potevo crederci. «Toglimi una curiosità. È vero che i soldi danno la felicità o l'effetto sparirà tra poco?» Vidi un accenno di sorriso. «Ti sembro felice?», chiese malinconico. Io sospirai, «no. Ma non è detto che non lo sarai. Trasferisciti, inizia una nuova vita. Una vita per bene, un lavoro per bene. Sposa una donna e metti su famiglia. Buttati tutto alle spalle», dissi io, speranzosa. «Non puoi chiudere con il tuo passato se lui non ha ancora chiuso con te», rispose e basta, inserendo la chiave nell'auto. «Grazie Alex», dissi piano. «Perché mi avevi chiamato? Quale evento raro ha richiesto la mia presenza?» «Magari volevo solo passare un attimo con mio fratello», dissi sorridendo. Mi guardò con occhi curiosi, poi sorrise. «Sul serio?», chiese sorpreso. Lasciai che fosse così, annuendo. «Ti fermi per un po'?», domandai. «Ho un volo tra meno di un'ora.» Io, sorridendo a labbra serrate, annuii, scesi dall'auto e chiusi lo sportello.

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