21. Black hasn't got shades

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21. Il nero non ha sfumature.

Per il resto della settimana la mia vita si stabilizzò in una routine quasi sopportabile. La parte migliore della mia giornata era la sera, a lavoro. Non ero ancora riuscita a inviare la lettera di rinuncia all'università, in quanto Evans sabotasse ogni mio vano tentativo. Decisi che ci avrei provato fino alla morte, non mi importava se fosse il professore con il maggior numero di studenti e corsi dell'Università, o se era un professore storico della Kingstom: io lì non avrei mai più studiato. Stavo servendo un Sex on the city, quando avvertii una forte fitta sotto allo stomaco. Non trattenni un gemito di dolore, reggendomi al bancone. «Tutto bene, Lex?», chiese Blaire accigliata, facendo per sorreggermi. Mi rimisi in piedi ed annuii sbrigativamente. La mia fronte era imperlata di sudore. «Il doppio dei clienti in una sola settimana, dev'essere proprio il tuo fascino, ragazza», disse Remi, giungendo dallo sgabuzzino dove faceva i suoi conti. Forzai un sorriso, mentre passavo la pezza bagnata sul bancone sporco di schizzi qua e là. «Non hai una bella cera... Sei sicura di star bene?», insistette Blaire, con aria preoccupata. «Sì. Oggi non ho mangiato granché, meglio beva un po' d'acqua», la rassicurai io, dirigendomi verso il rubinetto. «Cosa sento? Quale acqua! Ora tu mangi ogni panino in vetrina, chiaro?», intervenne Remi, infilando il mazzetto nella tasca posteriore dei jeans. Era un uomo dal sorriso buono e familiare, con una pancia importante e una barbetta grigia che gli si arricciava dal mento alle basette. Fui costretta a mangiare il panino, seduta sullo sgabello. Diedi un morso dietro l'altro, facendo salire solo che un gran senso di nausea nello stomaco. Arrivata a metà, lo gettai di nascosto. «Beccata», sussurrò una voce profonda e maschile, quando un'ombra oscurò la mia visuale del bancone. Sollevai lo sguardo. «St!», dissi sommessamente, guardandomi intorno furtiva. Sollevò il sopracciglio, poi scoppiò a ridere. «Avevi ragione su Kristen Colin», disse Kyle prendendo posto nello sgabello difronte a me. «Ho sempre ragione», replicai, tentando di mostrare un sorriso gentile malgrado la nausea. «Eh già. Devo ammetterlo», disse scherzosamente. «Non avevo capito come mai la protagonista d'un tratto smettesse di lasciare indizi... Il fatto che in realtà Teresa non esista mi ha lasciato un po' di spiazzo», sospirò, appoggiando i gomiti al bancone. «Prendi il solito?» Kyle annuì. Preparai il suo drink e glielo porsi. «Logan in realtà è alla ricerca di sé stesso... Il finale è sconvolgente se si interpreta nel modo giusto», commentai. «Sì, sono felice che tu mi abbia aperto gli occhi su quel libro! Ora ha tutt'altro senso... Strano non l'avessi capito prima. Non per vantarmi ma ci so fare con i finali criptici», disse guardando la superficie ambrata del liquido nel suo bicchiere di vetro. Lo scolò, facendolo scendere per la gola. Vidi il suo pomo d'Adamo abbassarsi nel collo. «Questo perché sei un uomo... Da subito ho capito che Teresa era frutto della mente di Logan. Nessuna donna lascerebbe come indizio delle mutandine rosse», spiegai, facendo nascere tra le sue sopracciglia una ruga. Era incuriosito. «Cioè?», domandò, corrugando la fronte. «Cioè... Le mutandine rosse sono più nel sogno erotico di un uomo. Una donna punterebbe più sul nero... O sul bianco. Sopratutto una impacciata e timida come Teresa Griffin», spiegai, sorridendo leggermente. Finalmente il subbuglio nello stomaco era passato. «Come mai non hai scelto lettere?», chiese, sollevando un angolo delle labbra rosee. «All'ultimo anno di liceo mi ero fatta sentire con la mia insegnante di letteratura... Si permetteva di dire che la cultura dei neri non appartenesse alla cultura statunitense, ma che loro la macchiavano di antiche e barbare tradizioni», raccontai, sollevando le spalle. «Tu sì che sei un bel tipo! E quindi? Ti ha reso l'anno un inferno scommetto...», insinuò. «Già... Per fortuna me la cavavo, ma avevo già lettere su lettere di raccomandazioni da parte dei miei insegnanti di matematica, fisica e così via... Inoltre i miei volevano prendessi medicina», rivelai. «E poi? Con medicina non è andata?», chiese curioso. Approfittai della scarsità di clienti per fare un po' di chiacchiere. «In realtà andava a gonfie vele. Il primo anno non ho mai preso un voto sotto al trenta... Poi quest'anno le cose sono un po' cambiate. Non avevo né voglia né passione e penso che la vita sia troppo breve per fare qualcosa che non ci piaccia. Inoltre, se vuoi diventare medico ci devi mettere tutto te stesso. Un domani non vorrei essere curata da qualcuno che non abbia passione nel mestiere. Non so se mi spiego», dissi io. Annuì. «Chiaro, chiaro. Che evento catastrofico è avvenuto quest'estate?», intuì. «Come fai a sapere che è avvenuto un evento catastrofico?», domandai. «Nessuno passa dal massimo al nulla in così poco... Perciò intuisco sia avvenuto qualcosa di importante.» «Sì, hai ragione. Ma ne potremmo parlare dopo qualche drink in più». Blaire strillò contro un cliente, richiamando la mia attenzione. «Se mi tocchi il culo un'altra volta ti butto nella friggitrice, chiaro?», tuonò furibonda. Lui annuì intimorito, fuggendo verso l'uscita con un suo amico. Quella ragazza mi piaceva. «Tutto okay Blaire?», chiesi da lontano. Mi raggiunse, «certo, l'avrei castrato se solo in quel caso non avessi perso il lavoro!» Io risi, Kyle anche. «E voi due che fate?», domandò, con uno strano sorriso. Kyle si spettinò i capelli mori e fluenti sulla fronte, mentre questi ondeggiavano sopra alle sopracciglia folte. «Parlavamo», disse lui. «Uh, Lex! È arrivato un pacco oggi pomeriggio, c'era scritto che era per te», mi informò Blaire d'un tratto. Si diresse verso il magazzino, e tornò con una scatola rossa. Me la diede. Incuriosita la appoggia sul bancone e poi sollevai il coperchio. Rose rosse, di un rosso molto vivo ed acceso. Erano stupende, ma perché chiuderle in una scatola? Presi il mazzo tra le mani. «Ehi, è caduto questo», disse Kyle porgendomi un foglio di carta. Temetti di leggere. "Le più belle rose alla più bella ragazza -J" Inghiottii aria, sbiancai. «Ehi! È un mazzo di rose da un ammiratore, no? Cos'è questa faccia?», chiese Kyle, sorridendo. Feci un sorriso falso, sperando non risultasse come una smorfia. «Certo, sì», lo congedai. Presi le rose e le buttai nervosamente nel cestino, assieme al bigliettino. Gli diedi dei pugni inutili per farle affondare. «Ehi, calma!», ridacchiò Blaire. Ero frustrata. La situazione iniziava a starmi stretta, ogni volta mi dicevo: "sarà l'ultimo messaggio, le ultime rose che mi manda", e cercavo di non pensare che chiunque fosse, la settimana prima voleva entrarmi in casa. Forse avevo preso la situazione troppo alla leggera, forse ero in pericolo e stavo sottovalutando J.
Il cellulare trillò in tasca. Avevo paura di aprire anche quello, ma lo afferrai lo stesso. "Sono offeso -J". Mi guardai intorno, sentendo il cuore battere ancora più forte. Non c'era nessuno dentro al locale. Con il cellulare in mano uscii fuori, spavalda, per cercare con lo sguardo qualunque essere nel raggio di un chilometro. Ma niente, il vuoto più totale. Mi chiesi solo come potesse essere possibile... Vibrò di nuovo. Quella era una chiamata ed era da parte di mio fratello Jonas. Non volevo rispondere, così attaccai e tornai dentro. Imperterrito continuò a chiamarmi finché non mi stancai di riagganciare. «Che c'è Jonas?», chiesi spazientita. «Evans mi ha detto che se non torni subito mi renderà la carriera un inferno», grugnì. Oh, mio fratello dopo giorni e giorni in cui non mi sentiva, non mi chiamava per chiedermi come stessi, ma perché si preoccupava della sua preziosa carriera. «Non me ne frega niente», sputai rabbiosa, con la nausea e il mal di testa. Blaire e Kyle rizzarono le orecchie, così decisi di tornare a parlarne fuori dal locale. «A me importa di te. Si può sapere che stai combinando? Non ho scordato la storia dell'LSD, il modo in cui mi hai gridato contro quando mi stavo solo preoccupando per te. Che avrei dovuto fare? Ero solo spaventato per mia sorella... E adesso? Ti sei messa in testa di lasciare il college e sprecare tutto il talento che hai?», domandò, con una punta di delusione che non mi era nuova. «Sembri papà. E questa volta non è un complimento», dissi dura. Lo sentii sospirare dall'altra parte della cornetta. «Non ho intenzione di opprimerti o di farti prendere scelte che non vuoi fare. Ma sappi che non sono l'unico a pensare che dietro a quella chioma folta di capelli e all'aria da barbie si nasconda un gran cervello. Non sprecare il tempo in un bar», disse mio fratello. Non risposi, sospirai e basta, guardando la strada bagnata dalla pioggia che aveva cessato di scendere dal cielo da poco. Questo era ancora piuttosto oscurato, mentre gli alberi erano smossi da potenti folate di vento. Rabbrividii. «Bar? Come... Come fai a sapere che lavoro in un bar?», domandai corrugando la fronte. Per un attimo mi passò per la mente l'idea che J, potesse essere Jonas, e che tutto era solo un gran malinteso. Ma quell'idea passeggera e folle venne subito smontata facendo mente locale di ogni contatto che avevo avuto con J sino ad allora. «Le voci corrono. Oggi... Be' insomma oggi quel tuo amico, l'ex ragazzo di Julie...», disse con una nota di disgusto. «Sì?», chiesi incuriosita. «Litigava con una ragazza in ospedale. Sembrava un po' piccola e non faceva che dire che lui prova qualcosa per te. Non ho origliato, li hanno sentiti tutti, temo», mi informò. «Oh... No. Anche Julie, vero?», mi buttai una mano sulla fronte. Mannaggia a Simon e alle sue fastidiose cotte per me. «Sì, perché?», domandò. «Be' perché... Ehm, no niente», mi tappai la bocca, ricordandomi che ora loro due stavano assieme. «Ma non tornerò al college. Ho già preso questa decisione, lasciami prendere le mie scelte.» «Puoi chiarirmi la storia dell'LSD una volta per tutte?», chiese costernato. Sospirai, irritata. Mio fratello mi credeva una drogata. «Jonas, se mi dai della drogata un'alta volta io ti ammazzo», ringhiai. La mia testa tornò a girare quando gridai. «Smettila di fare la bambina e dimmelo! Cosa ti sta succedendo?», domandò scaldandosi. «Sul serio, smettila. Non mi sento bene e non ho voglia di star qui a litigare con te», dissi vacillando, mentre le mie palpebre si facevano inspiegabilmente deboli. «Non ti senti bene eh? Finiscila di fare la ragazzina!», strillò. «Dico sul... Sul serio mi gira la testa», biascicai. Gli occhi si chiusero di botto.
Dei fastidiosi brusii mi solleticarono i timpani, schiusi le palpebre, che però erano troppo pesanti e si serravano in continuazione. Non capivo cosa stesse succedendo.
Vidi una camera bianca girarmi attorno, un letto bianco, un camice, due, tre camici bianchi. La luce bianca. Tutto aumentava i miei giramenti di testa. «Che ci faccio qui?», bofonchiai con voce roca. Le palpebre si riabbassarono nuovamente. «Stai bene?», incontrai due occhi celesti e a spicchi verdi. «Oh, fottiti Jonas», abbaiai, indebolita. «Sì, sta bene», sentii la voce di Simon provenire alla mia destra. «Hai perso i sensi, ti abbiamo fatto una flebo e abbiamo prelevato del sangue», disse una voce adulta, che non avevo mai sentito. Mi guardai gli avambracci. «Sto bene, levatemi questi tubi inutili!», gridai, sperando la poca forza che avevo in corpo. «Smettila di fare la bambina e dimmi che ti prende», ringhiò mio fratello. «Sono incinta Jonas, sei zio. Contento?», dissi per togliermelo dalle scatole. Spalancò le palpebre e sbiancò in volto. «Stai scherzando?», chiese deglutendo. «È incinta? Dobbiamo metterlo nella cartella medica», mi chiese il medico di guardia. «Scherzavo, idioti», sbuffai. Jonas sospirò dal sollievo, Simon che sgranocchiava patatine sulla poltroncina nell'angolo della stanza strozzò una risata. «Non è divertente!», abbaiò Jonas. «Sono al limite della mia pazienza perciò tenterò di dirlo con calma. Scollegatemi e lasciatemi andare a casa. Adesso! Oppure giuro...», guardai con occhi iniettati di sangue quel dottore novello di cui non conoscevo il nome. «Giuro che ti ficco i pollici negli occhi e te li faccio schizzare via da quella testa completamente vuota!», gridai come impazzita. «Senti. Datti una calmata, adesso», mi ordinò Jonas scandendo bene le parole. Sospirai, mi riappoggiai al lettino ed obbedii. Delle lacrime mi si accumularono agli occhi rapidissime, iniziando a sgorgare via senza che ne sapessi la ragione. «Oh Dio santo! E adesso perché stai piangendo? Si può sapere?», domandò esausto mio fratello. «Sei persino peggio di Alex! Tu... Il tuo lavoro, la tua ragazza che ami tanto... La ami più di me! "Julie è perfetta... Julie ha vinto il premio Harlow Kingstom... Julie è..."» «Smettila, smettila e smettila», gridò, bloccandomi le mani che gesticolavano impazzite, e sedendosi sul lettino. «Temo proprio che tu sia incinta. Hai degli sbalzi ormonali assurdi!», sospirò esuberato. Abbassai lo sguardo. «È possibile?», chiese, cercando i miei occhi con i suoi. «Non lo so. No», scossi il capo. «Non lo sai o no?», chiese calmo. «No...n lo so», ammisi. «Oh merda. Alexis!», mi riproverò. «Sul serio? Mi obbligherai a farti il discorso sulla pillola?», chiese riluttante. «No! E non la prenderei mai. Non voglio diventare una balena arenata», dissi ferma e contrariata. «Vuoi un bambino allora?», chiese lui,  arrabbiato per la mia risposta infantile. «Non importa. Jake mi ha lasciato tanto», dissi abbassando il tono di voce. Era all'in circa da una settimana che non ci pensavo e che non lo nominavo. Sembrò una coltellata nel petto. Scoppiai di nuovo a piangere come una bambina, al che mi chiesi io stessa se quell'anomalo comportamento potesse esser dipeso dagli ormoni sbalzati. Mi appoggiò una mano sulla testa, e poi la premette contro il suo petto. Solo allora mi accorsi che stavo dando spettacolo a due specializzandi, un dottore e ad un volontario che doveva essere proprio Simon. «Perché mi fissano tutti...», bofonchiai. «Oh, sono stanco di sentire chiacchiere su di te... Su quell'idiota del tuo ex ragazzo... Sul migliore amico di quell'idiota del tuo ex ragazzo...», grugnì, lanciando una brutta e rapida occhiata a Simon che se la rideva. «Entro domani avremo il risultato delle analisi del sangue e chiariremo ogni dubbio», disse il dottore. «Questa notte la passi qui, tanto io sono di guardia e ti darò un'occhiata», intervenne Jonas. Roteai gli occhi al cielo. «Non ne ho voglia... Mi aspetta un mio amico a casa sua», replicai. Jonas inarcò un sopracciglio e mi guardò torvo. «Un altro?», ringhiò. «Un mio amico. A-m-i-c-o! Smettila. Non sono quel tipo di ragazza. Sono stata fidanzata solo una volta in tutta la mia vita. Non guardarmi come se fossi una facile, e drogata per giunta», lo sgridai, quando la rabbia fece presa un'altra volta. Lui sospirò, prima di rimettersi in piedi. «Non lo penso. Scusa. La smetto». Mi rimboccai di più le coperte. «Andate fuori», bofonchiai. I quattro uscirono, ma io continuai a sentire le patatine sgranocchiate sotto ai denti di Simon. «Intendevo anche te», aggiunsi. Si sollevò in piedi, prese una sedia e si sedette accanto al mio lettino, non togliendo lo sguardo dai fogli nelle sue mani. «Non sono abituato a studiare senza il mio migliore amico», borbottò. «Non parliamo del tuo migliore amico», dissi amareggiata. L'unico modo che avevo per non disperarmi era non pensarci. Fare finta che io e Jake non fossimo mai stati niente. E forse, ormai, era un po' così. Sollevò lo sguardo e mi rivolse un sorriso di sbieco. Lo riabbassò sui fogli. «Che diavolo è la neurocisticircosi», borbottò. «La patologia delle tenie nel cervello», gli dissi io. «L'avevo studiato con Jake l'anno scorso», spiegai al suo sguardo sorpreso. «E in questo momento direbbe "se ti siedi accanto a me hai l'unica chance di passare il test"», aggiunsi. Lui rise. «Già, è proprio il genere di cose che direbbe per incoraggiarmi.»
«Lola ha dato di matto?», domandai, facendo scattare il suo sguardo sul mio. Sospirò. «Pensa che io provi qualcosa per te», disse angosciato. «Ed è vero?», chiesi io. Mi guardò negli occhi. «Credo che tu sia... Impossibile. Non mi innamorerei mai di te, senza offesa», rivelò, suscitandomi un sorriso. «Impossibile?», chiesi accigliata. «Già. Tutti quei... Sbalzi d'umore. Le crisi isteriche, la parlantina. Il modo in cui sei crudele con le persone. Egoista e menefreghista», spiegò, stringendosi nelle spalle. «Uau. Hai una bella considerazione di me», ridacchiai, anche se un po' colpita da quelle parole. Era questo che la gente pensava di me? «Ma la parte buona vale quella cattiva, molte volte», aggiunse. «E quale sarebbe la parte buona?», chiesi, ormai troppo incuriosita. «A volte... Sei gentile. La gente apprezza di più la gentilezza degli stronzi. Riceverla è davvero un dono. Sei divertente. E molto diversa dal resto delle altre ragazze...», disse, e deglutì riabbassando lo sguardo. «Sei bella in una maniera incredibile. Sei... Perfetta. Non sembri vera.» Sentii il mio cuore battere più forte. «Grazie», dissi sottovoce, sorridendo leggermente. «Di niente», riprese a leggere da quelle scartoffie. «Da come parli sembra che tu sia innamorato di me, Simon». Riprese a guardarmi.
«Tu credi?», chiese, non trasmettendomi alcuna emozione, con lo sguardo o con la voce.
«Una donna sa sempre quando un uomo è innamorato di lei», sollevai le spalle. «Non direi. Dato che hai impiegato un secolo prima di capire che Jake era innamorato di te», replicò. «Questo lo dici tu», ribattei. «Ho sempre letto nei suoi occhi quello che sentiva per me. Forse mentivo a me stessa, in passato. La cosa più brutta che mi sia mai successa è stata quando ho smesso di leggerci ciò che ci ho sempre letto», dissi perdendo lo sguardo nel vuoto, ricordandomi del suo, quando disse: «Penso di amarti». Cacciai via quei pensieri. Stavo andando così bene, con la tattica del non pensarci, prima di venire qui. «L'amore non ricambiato fa schifo. Non è così?», domandò sospirando. «Spero di non scoprirlo mai. Se dovessi mai rivederlo spero di...» «Di?», mi interruppe, dopo uno o due secondi di esitazione. «Di riuscire a passargli davanti senza guardarlo negli occhi nemmeno una volta. Spero solo che si renda conto di che sbaglio ha fatto, e che sappia che mi ha persa per sempre. Spero che se ne penta, anche se ne dubito. Lasciarmi è stata la scelta migliore che avesse mai potuto fare. Spero solo che non se ne accorga mai». Cadde un silenzio tombale. «Non sarà mai felice senza di te», disse lui, «lo conosco. So quanto sia innamorato di te. Qualsiasi cosa tu pensi di sapere... Non smetterà mai di farlo».
«Non ha più importanza», dissi ferma. Sentii la sua mano sulla mia e la guardai confusa. «Non far soffrire anche Lola», raccomandai. «Non lo farò. Tu fa pace con la tua amica. Mi sembra così triste e non sopporto di vederla triste. Le voglio davvero bene, anche se non la amo. E ha ragione. So che tu pensi di avere sempre ragione ma non è così questa volta. Tu eri la sua migliore amica, io il suo ragazzo. Non l'ho tradita solo io.» «Perché io non merito il perdono?», chiesi sospirando. «Perché non lo chiedi mai», rispose lui, in tono piatto. Sentimmo bussare. La mia mano scattò lontana dalla sua, sembrò che quel qualcuno avesse interrotto chissà quale momento, quando in realtà stavamo semplicemente parlando. Mi era mancato avere un dialogo con qualcuno, un dialogo vero. Quando Julie entrò in stanza, mi accorsi che Simon aveva la mano appoggiata sulla mia coscia. Aveva dei fiori in mano quando la sua espressione divenne sorpresa. Sapevo cosa stava per avvenire, e non mi sarebbe piaciuto. «Julie...», cominciai io, senza neppure sapere come terminare la frase. «Ti ho portato dei fiori», esordì, facendo un sorriso forzato. Appoggiò il mazzo sul tavolo sotto alla finestra. «Cosa hai avuto?», domandò di spalle. «Nulla di che, io... Insomma... Noi stavamo parlando...», spiegai. «Sì. Certo. È okay. È tutto okay. Sono passata a vedere come stavi», mi interruppe. Non mi sarei aspettata quella reazione. Simon sollevò le sopracciglia, e la guardò. «Ho parlato con Evans. Ho tolto il premio dal mio curriculum», mi informò. «Julie... Non dovevi farlo», sospirai io. «Sì, dovevo». Il silenzio padroneggiò per altri lunghi secondi. «Ho anche parlato con Parker, l'infermiere corrotto», disse rivolgendo lo sguardo ai bei fiori colorati sotto alla finestra. «Hanno fatto un errore in laboratorio. Hanno scambiato le tue analisi con quelle di un'altra persona. Capita quando fai le cose di nascosto», spiegò lei. «Quindi?», corrugai la fronte. «Quindi è possibile che tu sia incinta a quanto mi ha appena detto Jonas, e non hai mai assunto LSD. D'altro canto la drogata con cui sono state scambiate le tue analisi ora pensa di essere incinta e...» «Afferrato», deglutii il groppo salito alla gola. «Vuoi aspettare davvero fino a domani mattina? Vuoi che ti vada a prendere un test?», intervenne Simon, con un'autentica preoccupazione. «No. Ho bisogno di una notte di tempo per pensare a cosa farò se dovessi essere incinta», risposi io, fissando un punto nel vuoto. «Che vuol dire cosa farai?», chiese lui corrugando la fronte. «Qualunque sarà il risultato... Non dovrai dirgli nulla Simon. Lo so che non mi devi niente, e che lui è il tuo migliore amico. Ma anche io sono tua amica, e mi devi fare questo favore», dissi guardandolo negli occhi. Sospirò. «Non posso. Non posso fare una cosa del genere. Tu, non puoi fare una cosa del genere», obiettò. «E lui? Pensi che tornerebbe se io fossi incinta?» «Potrei metterci la mano sul fuoco», rispose fermo. «Ma io non voglio. Lui mi ha abbandonato, e se dovesse esserci qualcuno dentro di me... Be' anche quel qualcuno è stato abbandonato», gli dissi, amareggiata. Lui scosse il capo contrariato, e Julie mi guardò angosciata. «Non saremmo a questo punto se tu avessi fatto le cose nel modo giusto», disse lei con tono rimproverevole. «Lo so. Ma ora non posso farci più niente», dissi sollevando spalle e sopracciglia. «Come? Come puoi dire questo Alexis! Sai cosa vuol dire un bambino a diciannove anni? Questo per la tua imprudenza, per la vostra imprudenza. Niente college, niente lavoro... Niente vita che ti meriti e che il bambino merita. L'unica cosa sulla quale puoi contare è il tuo conto in banca illimitato, perché l'eventuale padre è sparito nel nulla. Perciò come non puoi provare un minimo di preoccupazione o spavento?», domandò allarmata. Sentendo le sue parole mi ricordai che io non avevo più un centesimo in banca, e che non avrei potuto garantire al mio bambino un futuro. Julie aveva ragione, ma cos'altro avrei potuto fare tranne che sperare che non stesse veramente accadendo?
«Forse perché per una volta in vita mia non sarei più sola», le dissi, sentendo una morsa stringermi il cuore. Sospirò e si sedette sul lettino con il suo sguardo pieno di compassione. «Ma cosa dici. Tu non sei sola. Se solo non mi respingessi, io... Io sarei la matrigna, o la zia, o la seconda mamma... O quello che vuoi tu», sorrise in modo buono, il sorriso buono che aveva solo Julie. «Non sopporto queste scenate di solidarietà femminile e sdolcinatezze... Per favore», intervenne Simon riluttante. «Tu stai zitto», gli sbattei i fogli sulla faccia. Julie ridacchiò. «Ho un'idea. Domani quando arriveranno i risultati delle analisi tu non sarai qui. Verrai a scuola, con me. Non hai ancora consegnato la rinuncia. Concedimi un solo giorno per convincerti a cambiare idea, se non ci riuscirò sarai libera di fare tutto ciò che vorrai», sorrise Julie, stringendomi la mano. «Se deciderai di sì però, verrai nella camera con me e Amber, basta alloggiare da sconosciuti», aggiunse. «Thomas non è uno sconosciuto! È un mio amico. È buono, gentile, dolce...» «Sì, afferrato», mi interruppe nuovamente Simon, spazientito. «Allora. Domani vieni con noi a scuola. Poi verremo insieme qui e sapremo la verità. Dopo decideremo cosa fare, okay?», chiese lei. Il programma che aveva fatto mi piaceva. Annuii, e mi misi in piedi. Avevo ancora dei giramenti di testa. «Devo proprio rimanere qui? Che dice Jonas?», chiesi con voce flebile. «Sì, rimani qui e sdraiati.» «Ho bisogno di una sigaretta in questo momento», confessai, cercando con lo sguardo la mia roba. Dimenticavo di essere svenuta in mezzo alla strada. Ma chi mi aveva portata qui? Remi non poteva stare con una sola cameriera! «E se fossi incinta?! Niente sigarette», disse ferma. Sbuffai e mi rigettai sul lettino.
«Che noia», borbottai. Simon ricominciò a studiare, Julie iniziò a tastare lo schermo del suo cellulare. «Lo sai che Simon ha la ragazza», ruppi quel silenzio nel peggiore dei modi. Lui sollevò lentamente lo sguardo, lei anche, finché non si incontrarono fugacemente. «Anche Julie ha il ragazzo», aggiunsi stringendomi nelle spalle, prima di scoppiare a piangere. Iniziavo ad odiarmi. «Ehi! Ma che ti prende?», chiese Julie corrugando la fronte. «Sai che ha detto il mio "ragazzo"? Che mi avrebbe sposata. Capisci? Voleva che ci sposassimo... E poi? Mi ha lasciata senza che avessi fatto nulla, nulla! Io lo amo davvero», singhiozzai. Mi guardarono come se fossi pazza, o peggio, patetica. «Dai, non piangere», mi abbracciò Julie, e poi stampò un bacio sulla mia testa. «Fammi andare via. In un letto che non sia uno d'ospedale», bofonchiai. «Va bene, lo vado a dire a Jonas», disse, prima di uscire dalla porta con lo sguardo costernato e compassionevole. Singhiozzai per lunghi minuti, fissando il vuoto. «Senti... C'è una fila immensa di ragazzi che vorrebbero stare con te, perciò non deprimerti così...», Simon tentò goffamente di tirarmi sù il morale, con un'impacciata pacca sulla spalla. «Potresti abbracciarmi almeno», bofonchiai. Lo fece, abbastanza calorosamente. Piansi di più, appoggiando la fronte tra la sua spalla e il suo collo. Simon aveva un buon odore. Sentimmo bussare e poi la porta si spalancò. «Non ci posso credere!», gridò Lola furibonda. «Senti... Calma tesoro, non stavamo facendo niente...», si giustificò lui, staccandosi subito. Mi rivolse i suoi occhi grigi iniettati di sangue e odio verso di me. «Lei è... mmmh!», gridò prima di tapparsi le labbra. «Torna a giocare con le barbie, poi riparliamo di cosa sarei io.» Simon si contrappose tra di noi quando sembrava volermi piombare addosso. «Ehi, ehi. Te l'ho detto. A me piaci solo tu. Okay? Né Alexis, né Julie, è la verità», disse lui, appoggiando le sue mani sulle sue spalle. Non mi piaceva quando la gente preferiva qualcun altro a me, forse era egocentrico, ma in quel momento Simon preferiva Lola a me. Lui era mio amico adesso, io avevo preferito lui a Julie molte volte, perché aveva ragione, a prescindere da i rapporti che avevo con entrambi. Misi il broncio e incrociai le braccia al petto, sentendo le lacrime giungere nuovamente nelle orbite. «Tu, smettila di muoverti come se fossi indemoniata», disse, facendola sedere con la forza. «E tu smettila di piangere, okay?», chiese asciugandomi una lacrima dalla guancia. «No! Tu stavi parlando con me, stavi abbracciando me. E po arriva una quindicenne e ti dimentichi che anche io sono tua amica. Ti difendevo con Julie, ti offrivo le sigarette, dicevo a Jake di aiutarti con algebra... Sei ingiusto!», tuonai. Mi guardò come se fossi un alieno. «Spero vivamente siano gli ormoni della gravidanza», disse pensoso. «Gravidanza? Sei incinta? Oddio!», Lola fece per raggiungere la porta della camera ma venne fermata dalle braccia di Simon. «No, non lo dirai a Lucille che non lo dirà a tutto il college, promettimelo», disse scandendo bene ogni parola. «Dai... Lasciami», si dimenò. «Prova a dirlo a qualcuno e giuro che ti strappo tutti quei capelli biondi ossigen...» «Piantala. Tu sei più grande Alexis, dà il buono esempio», mi esortò spazientito. «Altro che buono esempio a lei servirebbe un carcere minorile.» «Basta!», tuonò lui. Incrociai di nuovo le braccia al petto, Lola guardò rabbiosa fuori dalla finestra e Simon si risedette a leggere. «Piuttosto che sederti vicino a miss perfettina siediti vicino alla tua ragazza, idiota!», gracidò Lola, spedendosi verso la porta. Lui le corse dietro e quando uscirono per poco non si scontrarono con Julie e mio fratello che invece stavano entrando. «Se ti senti bene puoi andare. Ma mi raccomando, chiamami se non dovesse essere così», raccomandò Jonas. Sollevata mi alzai in piedi, pronta a fuggire da quel manicomio. «Dio, grazie. Ma chi mi ha portata qui?» «Un certo Kyle», rispose evasivo Jonas, prima di tornare in corridoio. «Dai ti accompagno io da Thomas e domani mattina ti aspetto prima di entrare, mi raccomando», disse lei. Annuii.
Salii nella sua auto stanca morta, non vedendo l'ora di buttarmi sul letto. Mi scosse il braccio risvegliandomi dal sonno quando giungemmo a destinazione. «Ho preso la tua borsa, tieni. Me l'ha data quel Kyle... Però, niente male», disse maliziosa. «Non cominciare», dissi aprendo lo sportello della macchina. «Siamo amiche solo da qualche ora», scherzai. Julie sorrise e fece ciao con la mano prima che dessi uno spintone allo sportello della sua auto. Camminai inebriando l'odore di pioggia mischiato a quello della salsedine, finché non giunsi difronte al portone. Citofonai e nell'attesa che Thomas mi aprisse chiusi gli occhi solo per un attimo. «Ehi», disse facendomi strada dentro casa. «Di già?», corrugò la fronte. «È una lunga storia», mi gettai sul divano e serrai le palpebre. «Non arrivi neppure al letto?», ridacchiò. «No», risposi assonnata. «Dai ti porto io», disse, prima che sentissi un suo braccio sotto all'incavo delle ginocchia e l'altro tra la schiena ed il divano. Mi sollevò e si diresse verso la mia stanza. «Domani andrò al college», lo infirmai bofonchiando. «Fai molto bene», disse dando un calcio alla porta per farla aprire. Mi adagiò cautamente sopra al letto, e poi mi cadde addosso date le mie braccia pesanti sul suo collo. «Oh, scusa», mormorò, con il volto vicino al mio. Lo percepii poiché sentii il suo respiro sulla mia pelle. Quando aprii gli occhi vidi le diverse sfumature dal grigio al nero delle sue pupille. Avrei dato di tutto pur di vederci il mare.
«Resta qui», un sussurro quasi impercettibile fuoriuscì dalle mie labbra. Deglutì visibilmente. «Qui dove?», domandò. «Qui», mormorai, richiudendo gli occhi. Si stese accanto a me ed io appoggiai la guancia nel centro del suo petto. Non volevo che lì ci fosse chi in realtà c'era... «Alexis», mi chiamò, accarezzandomi i capelli. «Sì?», sussurrai, sollevando gli occhi verso i suoi. Sentii le sue mani scottanti sulle mie guance, e poi le sue labbra contro le mie. Mi assaporò. Impiegai un po' più del normale per capire che mi stava davvero baciando. «Scusa... Ehi, Thomas», mi distaccai, quasi immediatamente. «Io non volevo farti credere che...» «Dammi una possibilità. Tu meriti qualcuno che non ti faccia soffrire, qualcuno che ti tratti come meriti. Se solo tu mi dessi la possibilità io lo farei», pronunciò delle parole che mi apparvero solo confuse e distanti. «Thomas... Mi dispiace ma non posso darti una possibilità adesso. Ho appena chiuso una storia importante», spiegai. «E io cosa ti avevo detto? Che ti avrebbe fatta soffrire. So che è così dal primo giorno in cui ci siamo conosciuti. Lui non ti merita. Dammi una possibilità», mi implorò, facendo scivolare il suo pollice sul mio labbro inferiore. In cuor mio sapevo che non avrei mai dimenticato Jake, ma d'altro canto Thomas aveva ragione. «Penso di provare qualcosa di importante per te. Non ho idea di come tu faccia a fare questo effetto alla gente ma... Non posso più fare a meno di te», mormorò, districandomi i capelli sulla testa e poi lungo dietro all'orecchio. Chiusi gli occhi, ero stanca e quel massaggio era piacevole. Mi rannicchiai, con la testa tra la sua spalla e il suo collo. «Non so se posso farlo», sussurrai, sfiorando con la punta del naso e le labbra il suo collo. La solitudine mi divorava. Ciò che Thomas mi disse mi fece pensare che forse innamorarsi di me non era così raro. Poteva essere semplice e non complicato, come accanto a Jake avevo sempre pensato? Mi sentivo così impossibile, così complicata, egoista e menefreghista. Forse non lo ero, forse era con lui che mi sentivo così. «Tu pensi che io sia impossibile?», gli chiesi sussurrando. Le sue mani strinsero il mio viso con più decisione. «No. Non devi pensare di...», scosse il capo e poi guardò il soffitto. Io mi misi su di un fianco, reggendomi su di un gomito e appoggiando la testa sulla mano. «Di?», chiesi io. «Di essere egoista, crudele, impossibile, solo perché è lui a dirtelo. Non sei niente di tutto questo, lo vuoi capire? Si chiede perché tu abbia dubitato così a lungo, dimenticandosi che usava più ragazze in una settimana di quante io ne abbia mai avute in vita mia! E poi... Lui non ti ha detto di tuo padre, mi incapacito di capire come tu abbia fatto a perdonarlo», disse riluttante. Agguantai in un pugno la sua t-shirt e stampai un bacio sull'angolo delle sue labbra. Sollevò le sopracciglia sorpreso, e quando mi rimisi nella posizione di prima mi baciò di nuovo, con un trasporto maggiore. Incastrò le sue dita tra i miei capelli. Era uno di quelli che reputavo un bacio casto, senza grande importanza. Il che, al contrario di quanto lui diceva, mi rendeva egoista, crudele, menefreghista. Sapevo che il mio cuore era diventato un buco nero, e che io ero sempre stata un'irrimediabile stronza. Prendere in giro le persone era scorretto, ma in quel momento pensai solo a me stessa e alla mia solitudine che era sempre più logorante. Lasciai che mi assaporasse, rispondendo quasi impercettibilmente. «Thomas...», ripresi aria, distanziandomi. «Sì, scusami», arretrò di una manciata di centimetri. «No. Scusami tu, non sono in grado di darti quello che cerchi. Io...» «Io non cerco niente che tu non possa darmi. Tutto ciò vuoi tu», fece scendere l'indice dalla tempia alla mia guancia lentamente. «Sono confusa», spiegai, abbassando lo sguardo. Lui annuì. «Okay, ho capito. Riposati», mi accarezzò la testa ed io mi abbandonai nuovamente al materasso per poter dormire in pace. Ma cosa stavo facendo... Mi sembrava di aver appena chiuso occhio quando sentii la suoneria del mio cellulare provenire dal soggiorno dove avevo lasciato la mia borsa. Nelle punte dei piedi raggiunsi il divano e afferrai l'attrezzo squillante. Sullo schermo vidi lampeggiare un nome che mai mi sarei immaginata. "Jake". Il mio cuore picchiò il petto con un fervore innato e sconosciuto. Sentii quel suono ripetersi per secondi che parvero interminabili anni, mentre sentivo il sangue pulsare forte nella testa, il cuore battere in gola. Rispondo o no? Ero in un dilemma. Non volevo sentire la sua voce, non mi importava qualunque cosa avesse da dirmi; sapevo che mi avrebbe solo ferita di più. Ero una persona pessima, ne ero a conoscenza, ma lui non mi meritava lo stesso. Attaccai. Sospirare sembrò doloroso come deglutire lamine di metallo. «Ehi», sentii bofonchiare da Thomas. «Chi era?», chiese con voce roca ed assonnata. «Nessuno.»
Mi venne voglia di disintegrare il cellulare nel mio palmo quando riprese a squillare, facendo vibrare la mia mano e tutto il braccio. Premetti il pollice sullo schermo senza riflettere, e subito dopo me ne pentii. Portai il cellulare contro il mio orecchio, deglutendo forte. Attesi in silenzio, impaziente di sentire qualche rumore dall'altra parte della cornetta. «Lexie.» Ebbi un tuffo al cuore. Non sapendo che dire non interruppi quel silenzio assordante, in grado di rompere i timpani. Le palpitazioni si fecero più potenti secondo dopo secondo.
«Jake», dissi e basta, con un groppo alla gola e nel tono più freddo che riuscii. «Che vuoi?», chiesi brusca. Volevo che si rendesse conto che da me non avrebbe mai avuto più niente, che non eravamo e non saremo mai stati più niente. «Ho visto il raggio verde oggi», mi informò. La sua affermazione mi rese solo molto confusa. «E quando l'ho visto mi sono reso conto che tu non c'eri, e che volevo che ci fossi.»
«Mi sono svegliata stamattina, come ogni mattina. E mi sono resa conto che tu non c'eri, ma che volevo che ci fossi. Ma d'altronde i desideri non sono niente, come le tue promesse.» Sentii sospirare. «Non ti chiederò perdono, non ti dirò che mi sono pentito di ciò che ho fatto. Ma sto fissando il soffitto da un po', e stavo pensando a cose che ho pensato avrei dovuto dire a te.» «Sai cosa penso io invece?», chiesi amareggiata. «Cosa?» «Che tra di noi io ero la stronza, l'ottima bugiarda, la menefreghista. Ma l'ottimo bugiardo tra noi sei proprio tu, lo stronzo, il menefreghista e l'egoista. Questo te lo dico perché so che te ne pentirai, anche se adesso pensi che sia giusto. E per quel giorno io non ci sarò, te lo garantisco», dissi dura. «Come fai a sapere che non ci sarai?» «Perché per te non ci sono già da adesso.» «Voglio il meglio per te», disse in tono piatto. Delle lacrime mi punsero gli occhi mentre un nuovo nodo mi si stringeva in gola. «Hai chiamato per girare il coltello nella piaga?», chiesi con voce strozzata.
«Dimmi solo una cosa. Se dovessi tornare da te, mi sbatteresti la porta in faccia?» Mi ero ripromessa da diversi giorni che l'avrei trattato nel peggiore dei modi, e che mai l'avrei perdonato per il modo in cui mi aveva fatta soffrire, ma in quel momento rimisi tutto in discussione. Ero sul punto di dirgli che non vedevo l'ora che tornasse da me, saltargli tra le braccia, le uniche che volessi. «Non voglio vederti mai più.»
Chiusi la chiamata. Mi venne voglia di gridare o fare cose folli come dare pugni al muro o strapparmi i capelli. Sospirai, tentando di calmare i nervi. Non vedevo l'ora di avere i soldi sufficienti per poter raggiungere il West Virginia come avevo progettato, trovate un lavoro lì, cambiare numero e rifarmi una vita. Asciugai le lacrime sotto agli occhi e tornai in camera, bisognosa... Di non sapevo cosa. Forse di qualcuno. Mi rimisi sul letto dove due braccia mi strinsero forte, e delle labbra mi baciarono la fronte. Mi godei quell'abbraccio potente e affondai la testa contro il suo petto. «Grazie per esserci quando ne ho bisogno», dissi sincera, sentendo il suo cuore battere forte. «Grazie a te per esserci», replicò, accarezzandomi i capelli. Mi passò il sonno, che si sostituì ad un'angoscia che picchiettava il mio cervello come se fosse un martello pneumatico. «Cos'è che ti turba?», mormorò, corrugando la fronte. «Niente», appoggiai due dita sulle sue belle labbra rosee e sottili. Il suo pomo d'Adamo sbalzò sù e giu, il suo respiro si mozzò sulla mia pelle e riprese dopo qualche secondo. Cautamente sfiorai con le mie le sue, sentendo un'immediata risposta. Incastrò le sue labbra alle mie dolcemente e delicatamente e prese quello inferiore in bocca. Gemetti. Sentii la punta della sua lingua sfiorare la mia, sperando che quel batticuore presto si sarebbe fatto più forte, sperando che sarebbe emersa un'emozione grande almeno un decimo di quanta ne provavo con Jake. Non dovevo pensare a lui adesso. «Accarezzami», sussurrai, deglutendo. Negli occhi grigi gli scintillò qualcosa. Insinuò la punta della sua lingua nella mia bocca, e sfiorando la mia appoggiò la sua mano sul mio fianco. Quella era piacevole; si muoveva delicata sopra al vestito che avevo messo al locale. «Dove vuoi che ti accarezzi?», mormorò a interruzione di piccoli baci che si facevano più casti. Sospirai e chiusi gli occhi quando scesero lungo la gola. «Dove vuoi», mi concessi, senza neppure riflettere. Le sue mani mi strinsero la vita con una presa sempre più forte e poi una di esse salì discretamente. Gli permisi di toccarmi dove fino ad allora solo Jake mi aveva toccata. Emise un gemito sommesso e di gola. «Posso accarezzarti di più?», chiese sussurrando. Annuii, permettendo alla sua mano si insinuarsi tra il vestito e la mia pelle nuda. Mi guardò per un via libera, e quando le sue dita sfiorarono il tessuto delle mie mutandine, strabuzzai gli occhi ed ebbi un sussulto. «No. Scusami, davvero. Io, no.» Balzai in piedi come un lampo, e mi sistemai il vestito sulle gambe. «Scusa. Credevo di aver capito che lo volessi, non farei mai qualcosa che non ti va», disse risentito alle mie spalle. «Non avrei dovuto baciarti.» Una volta che mi ero voltata ed avevo pronunciato quella frase, guardare i suoi occhi mi trasmise ciò che provava. Mi sentivo uno schifo. «Scusami. Scusami davvero», mi rimisi con le ginocchia sul letto, cercando il suo sguardo. Una morsa mi strinse forte il cuore. Distolse gli occhi dai miei e fece un sorriso forzato che mi fece ancora più male. «Non so cosa mi è preso», tentai di giustificare l'ingiustificabile. Si mise in piedi e raggiunse l'uscio. «Buona notte.» I rumori che sentii dopo furono solo quelli di una porta aprirsi e chiudersi. I miei occhi ricominciarono a lacrimare. Perché perdevo tutte le persone che avevo accanto? Avevo un'abilità unica nel farlo. Mi raggomitolai sotto alle coperte, fissando il soffitto, illuminato ogni tanto solo dal passaggio di alcune macchine. Il giorno successivo mi svegliai con un terribile mal di testa e con due borse inguardabili. La camera che Thomas mi aveva concesso era spaziosa e luminosa.
Feci una rapida doccia e mi truccai per una decina di minuti, forse così a lungo solo perché non volevo uscire da quella stanza. Indossai dei jeans che ormai calzavano un po' stretti; forse stavo ingrassando. L'idea che potessi essere incinta mi balzò in testa, ricordandomi che quel giorno probabilmente sarebbe stato sconvolgente. Sperai solo che non sarebbe andata così. Andai in soggiorno, era luminoso e al centro della tavola c'era un bel mazzo di fiori in un vaso, con accanto un bigliettino. «Scusa», era scritto in stampatello ed in nero. Thomas era la persona più buona che avessi mai conosciuto. Come poteva chiedermi scusa, dopo che io mi ero comportata così male con lui? L'avevo usato per colmare il mio senso di solitudine, pur sapendo ciò che provasse per me. Non mi riconoscevo più... Non credevo di poter essere egoista fino a quel punto. Annusai quell'ottimo profumo avvicinando il mio naso tra quei fiori colorati. Una porta mi cigolò alle spalle e quando mi girai lo vidi un po' assonnato, mentre si strofinava gli occhi. «Che bei fiori», disse camminando verso l'angolo cottura. Tra le mie sopracciglia si formò una ruga. Non era stato lui a comprarli? «Grazie, stanno bene con il soggiorno», disse aprendo lo sportello. «Cosa ti preparo per la colazione?», chiese. Io agguantai il bigliettino e lo girai. "-J". Il mio cuore riprese a fare gli straordinari, la mia testa era un turbine di pensieri. Era entrato proprio qui dentro... Mi portai la mano sul petto sconvolta. La mia collana era sparita. Corsi in camera, frugai nel cassetto del comodino, nell'armadio, in bagno, sotto alle coperte, sotto al letto, in valigia. Della collana nessuna traccia. L'unico resto che avevo di Jake era sparito nel nulla; ora avevo capito, chiunque J fosse mi avrebbe reso la vita un inferno finché non gli avrei dato ciò che voleva. Ma cos'era ciò che voleva? Stavo boccheggiando. Qualcuno mi aveva sfilato la collana dal collo proprio mentre dormivo... Ero spaventata. «Cosa ti preparo? Ma ehi. Hai comprato i fiori e ti sei rimessa in pigiama? Non dirmi che hai cambiato idea e non andrai a scuola!», disse dalla cucina. «No», deglutii il gruppo salito in gola. «Vado di fretta. Mangio al college.» Corsi a lavarmi e mi infilai al volo le prime cose che trovai. Avevo bisogno di prendere aria. Conservai il biglietto in un cassetto, come tutti quelli che mi aveva mandato. "Non ti è bastato il camion? -J", rilessi anche quello. Avevo intuito che parlasse del camion che qualche mese prima aveva tramortito la mia auto, ma continuavo ad essere confusa. Era stato un incidente, il conducente mi aveva portata in ospedale, l'avevo anche visto in faccia. Arrivai difronte alla porta di casa, accorgendomi che non era chiusa a chiave. «Non chiudi la porta di notte?», chiesi afferrando la maniglia. «Siamo a Cheansburg, i ladri neppure esistono», disse con noncuranza. «Chiudi da oggi in poi. Mi hai sentita?», dissi seria. Si accigliò ed annuì. Io corsi nella mia auto e guidai sfrenatamente verso il college. Mi sentivo male, e sapevo che per evadere da quella situazione c'era solo una persona che avrei dovuto chiamare. Misi da parte l'orgoglio, afferrai il cellulare, digitai le prime cifre del suo numero e poi cliccai sopra al suo nome. Al secondo squillo lui rispose alla chiamata. «Lo so che non siamo più niente e che tu non mi devi niente», preannunciai. «Ma ho bisogno di te, adesso.»

Spazio autrice🌸

Chi è J? Cosa vuole?

Jake e Alexis a che punto sono?

Se vi è piaciuto cliccate la stellina per favore, per me è molto importante 💜

LEGGETE BORN TO DIE E UNEXPECTED se vi interessano delle storie collegate a questa.

Avete capito il collegamento con la prima?

Storia della storia;

Un giorno del giugno trascorso io stavo beatamente guardando una trasmissione chiamata Castle. La figlia del protagonista si chiamava Alexis, e quel nome ha continuato a frullarmi per la mente, per giorni e giorni. Ero in ansia per dei motivi, e piuttosto che affrontarli io iniziai a scrivere questa storia. Nel primo mese (luglio), aggiornai 20 volte, ad agosto una decina, e poi sempre meno a causa della scuola e dal subentrare di nuove storie. Non so perché vi stia raccontando questo ma ci sono cose che ho immaginai vi avrebbero interessato, delle curiosità. All'inizio Katy Wash, che nemmeno ricordo più a dirla tutta, doveva tornare ad essere la più grande amica di Alexis, ed essere il maggiore ostacolo tra lei e Jake, e anche essere la causa dell'allontanamento tra Lexie ed Izzy. Poi cambiai idea, senza sapere perché. Anzi... Prima di introdurre Katy volevo che Jake e Julie  si fidanzassero (😧). La prima Alexis che avevo immaginato era rossa con le lentiggini e con gli occhi castani. All'inizio la madre di Jake doveva essere ancora viva, e soffriva di cancro. Nel capitolo 6 "A drop in tre ocean", lui ne parlava con Alexis. Sarebbe stato proprio il padre di Alexis poi a salvare la vita di Rose McCall, intervenendo chirurgicamente. All'inizio Alexis doveva dire a Jake «ti amo», per la prima volta alla fine del primo libro, poi venne da sé molto prima.

Se mi torneranno in mente altre curiosità ve le dirò.

-Xoxo Kat🌸🎀

Amami nonostante tutto 2Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora