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Ero in prima superiore, nuova scuola, nuove persone, non conoscevo nessuno. Feci amicizia con un paio di ragazze. Al centro della classe c’era un fila di banchi singoli, in uno di quelli c’era un ragazzo. Sembrava più piccolo, non tanto alto, occhi azzurri, ma mutevoli. Una notte lo sognai: eravamo insieme, su una barca. Da quel momento mi piacque. Per la prima volta in vita mia, decisi di avvicinarmi a un ragazzo di mia iniziativa. Scoprii che avevamo un po’ di cose in comune, tra cui una parte della strada del ritorno a casa, così cominciammo a farla insieme e a parlare quasi sempre. Parlavamo, ridevamo, scherzavamo. Era piacevole. Era piacevole quel mio “Marco, muoviti o vado da sola” seguito da quel suo “No, aspettami! Ho fatto!”. Una volta la prof di italiano lo interrogò oltre l’orario scolastico, e lui mi chiese di aspettarlo. Lo feci. Lo attesi per un’ora e mezza in una cupa giornata di pioggia. Mi scocciava tornare a casa tardi, ma io volevo fare la strada con lui. Ci fu un periodo in cui mia nonna stette male, e ne parlai con lui, che mi confortò. Il giorno dopo che avevamo parlato, mi domandò “Allora, va meglio?” e io senza dire nulla lo abbracciai. Lo abbraciai un sacco di altre volte, fino a che il suo odore divenne riconoscibile ovunque per me; quel misto di debole incenso e profumo di ammorbidente. Ci fu l’estate e poi la seconda. In classe con noi capitarono dei bocciati, che non avevano voglia di fare niente, se non casino, e con il livello di interesse scolastico sotto zero. Purtroppo lui cominciò a frequentarli e sempre più spesso fumava e andava per una brutta strada. Tra noi ci fu un enorme distacco. Come se qualcuno avesse rotto a metà un bastone, non si poteva riattaccare, non era come un filo, lì ce la saremmo cavata con un nodo. Si fidanzò anche con una ragazza e alcuni dei nostri compagni gli dicevano che non era bella, che aveva un naso enorme e cose del genere. Mi sentii come se stessero cercando di confortarmi, come se stessero cercando di dirmi “Guarda che dovevi assere al suo posto”. Mi sentii così. Però andai avanti, tentando di non pensarci. In terza ci dividemmo perché entrammo nei corsi di specializzazione e lui non scelse il mio, così le uniche ore insieme erano quelle di spagnolo. Un giorno mi dissero che ebbe un incidente e due settimane dopo entrò in classe con le stampelle. Mi venne da piangere, ma mi trattenni. Mi venne da piangere perché non ero andata all’ospedale, perché l’avevo saputo dopo tutti gli altri e perché lui non mi aveva detto nulla. Si era rotto una gamba e aveva un taglio sulla faccia. Ci ha messo del tempo per rimarginarsi e sulla sua pelle si vedono molto le cicatrici. All’inizio di quest’anno l’ho visto con un altro livido sul viso, piuttosto nuovo oserei dire. 
Nel caso in cui qualcuno stia leggendo e si sia interessato, no, non è uscito dalla brutta strada. E’ circondato da finti amici, è solo, si fa del male, qualcuno gli fa del male. E io mi sento in colpa perché penso che se all’inizio di tutto gli avessi detto direttamente quello che provavo, forse non sarebbe diventato così. Avrei potuto salvarlo da quelle persone, dalla sua famiglia un po’ disastrata, dai lividi sul suo viso bianco latte.
Se qualcuno se lo sta chiedendo, sì, ho provato a riallacciare i rapporti. Gli ho scritto che mi mancava. Non è servito, il bastone non si è riattaccato.
Se qualcuno se lo sta chiedendo, tutto ciò che mi è rimasto è un cenno di testa per dire “ciao” e un “tutto bene?” per cordialità.
Se qualcuno se lo sta chiedendo, i suoi occhi sono azzurri, ma mutevoli; a seconda del tempo diventano grigi o addirittura verdi, magari sono l’unica che l’ha notato perché quando ho sentito parlare dei suoi occhi, nessuno l’ha mai aggiunto.

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