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"Era sotto casa, e come un anno prima, mi ritrovavo a percorrere il corridoio fino al portone, guardandolo che mi aspettava con chissà quale ritmo fra le mani. Era bellissimo.
Adoravo il suo stile, e il suo modo di vestire. Jeans attillati, quelli neri, che gli stavano divinamente, e maglietta larga con una scritta chiara, che gli avevo visto addosso altre volte, le chiavi di casa che si intravedevano sotto quest'ultima attaccate probabilmente con un moschettone ai jeans. Era proprio stupendo. Con i suoi capelli, che mi ricordavo morbidissimi, e un cappello pesante.
Mi disincantai da quella visione, e tornai alle manovre di routine per abbandonare il palazzo.
Quando feci per aprire, il rumore del portone richiamò la sua attenzione, disegnandogli sul volto un gran sorriso.
Uscii, gli andai incontro, non sapendo se abbracciarlo o se baciarlo sulla guancia. Non feci nessuna delle due cose, anche lui era imbarazzato. Ci limitammo a scambiarci un sorriso come saluto.
Lo ringraziai tanto per il favore che mi stava facendo, e dopo delle domande di cortesia, ci indirizzammo verso la fermata della metro in un imbarazzante silenzio."Quindi, che tatuaggio vorresti farti?"
Disse, mentre camminavamo.
Alla fine mi stava accompagnando. Strano. Non aveva mai mantenuto nessuna delle promesse che m'aveva fatto.
Non eravamo così intimi allora, non più.
Sinceramente non sapevo il motivo che lo spingesse ad accompagnarmi fin li dove gli avevo chiesto, era palesemente una scusa, la mia, per parlargli e recuperare uno straccio di rapporto.
"Non lo so, ne vorrei fare due, ma non sono sicura né del posto né del soggetto del disegno."
Il silenzio e una faccia strana si ritagliarono un po' di tempo prima di permettergli di rispondere.
"Ah. Ma comunque hai qualche idea vero? Cioè, perché stiamo andando?"
"Sì, qualche idea ce l'ho. Comunque te l'ho detto, volevo vedere l'ambiente e conoscere il tatuatore."
"Vedrai che è un grande, ti starà troppo simpatico."
Non sapevo cosa rispondere, quindi continuai a camminare con gli occhi che precedevano di poco ogni mio passo. Cercavo di non guardarlo troppo, altrimenti sarebbe stato impossibile controllarmi.
Quanto avrei desiderato abbracciarlo e dirgli quanto mi mancava e m'era mancato.
La sua voce riportò tutta la mia attenzione su di lui, eliminando i pensieri.
"Bene, comunque, che idee hai?"
Lo guardai negli occhi per un attimo.
"Una scritta, e forse una rosa."
"Dove vuoi farla la rosa?"
Riflettei per qualche istante, poi risposi.
"Sul collo, vicino all'orecchio. Dove volevo farmi quel bacio avvelenato, ricordi?"
"Sì, ricordo."
Ricordava. Ricordava di quando gli dissi che sarei andata a tatuarmi, e lui mi rispose che non ce ne sarebbe stato bisogno, perché me l'avrebbe baciato lui il collo, e se proprio volevo un tatuaggio, mi avrebbe disegnato un suo bacio.
Ebbi un brivido quando quelle parole riaffiorarono la mia mente. Impossibile che se le ricordasse anche lui.
"Sì, insomma, o dietro al collo, o sul braccio."
"Bello."
E sorrise, con quel suo sorriso dolce.
E mi si strinse il cuore in petto, che quasi soffocavo.
"E la scritta?"
Lo riguardai negli occhi. Ci fermammo al rosso del semaforo.
"Quella non so dove farla, forse qui."
Dissi, indicandomi la parte destra del costato, sotto il reggiseno.
"O qui." Sulla parte inferiore dello sterno.
"Bello, bello."
Sorrisi.
"E che ci scrivi?"
"Una frase che scrissi qualche tempo fa."
E sorrisi ancora, come per chiudere il discorso.
"Posso saperla?" Chiese, guardandomi negli occhi.
Arrossii al suo sguardo.
Quanto lo amavo, quello sguardo.
"Mah. È una cazzata."
"Non deve essere una cazzata se te la vuoi tatuare sulla pelle."
E ancora, quel sorriso.
"No. Sì. Cioè. Non è una cazzata, ma non ti interessa."
"Ok."
Silenzio.
Imbarazzante silenzio fino a dentro la metropolitana, seduti sui sedili. Vicini, attaccati, a causa della signora accanto a me e della sua ingombrante borsa. E ci scontravamo ad ogni curva che il vagone affrontava.
La sua spalla sulla mia, stretta. Le sue braccia sulle sue gambe fine, per non prendersi spazi altrui, per non starmi troppo vicino. Io, il più possibile attaccata alla signora, come se d'un tratto fosse lei la mia accompagnatrice.
Restammo in silenzio fino a quando rimanemmo in tre dentro tutto il vagone.
Poi decise di rompere quell'imbarazzo che ci soffocava.
"Da quanto fumi?"
Domande scomode.
"Inizio gennaio 2014." Poco dopo che m'hai lasciato, volevo aggiungere.
"Non dovresti."
"Mi serve."
Si voltò leggermente.
"Non ti serve."
Mi girai anche io, come a sfidarlo.
"Colma le mancanze."
Anche la signora affianco a me, scese. Adesso eravamo soli in quel vagone. Ecco la fortuna di dover scendere alla fermata precedente il capolinea.
"Quali mancanze?"
Non riuscivo a sostenere il suo sguardo nel rispondergli.
"Quelle che ho collezionato, abbandono dopo abbandono."
Stavo per piangere. Il suo, di abbandono, era stato il più devastante.
Ci fu il silenzio, ancora, per minimo tre fermate, e intanto invitai le mie lacrime a non scendere.
Non sapevo che cosa dire, di cosa parlare, quella quiete imbarazzata era orribile. Si sentiva solo il rumore dei binari.
Mi schiarii la voce, e poi ruppi il silenzio:"Come sta tua sorella, se posso chiedere?" Pericolosa come domanda, non avevo idea della risposta.
Sembrò sorpreso, nel sentire quelle parole. Ma non vidi dolore sul suo volto, e la cosa mi rassicurò, temevo di aver sbagliato a chiedere.
"Oh. Oh... Bene, grazie."
E sorrise, sorrise così tanto che sembrò che stesse ridendo.
"Vedi come sei." Continuò, guardandomi negli occhi.
"Come?"
"Così. Vedi. Mi hai chiesto di mia sorella ricordando quanto ero preoccupato per la sua salute. Così. Dal nulla. Dopo tutto."
Sorrisi.
"Sai che mi interessa."
"Sì. Lo so."
"Lo sai, appunto."
E sembrò avessi concluso, perché non aggiunse altro.
Lo sapeva, quanto mi interessava, di lui. E quanto lo amavo, forse poteva solo provare ad immaginarlo.
Aveva lo sguardo perso in qualche pensiero. E batteva con il piede a terra su chissà quale ritmo.
Incantevole.
Lo guardai fin quando non riportò la sua mente alla realtà e non ricambiò improvvisamente il mio sguardo.
Arrossii. Sorrisi senza neanche volerlo.
Sorrise anche lui, a me. Guardandomi con dolcezza.
E poi mi chiese, teneramente come in passato: "Me lo dai un abbraccio?"
E io, io non ci potevo credere. Non potevo immaginare di abbracciarlo. Non riuscivo, sinceramente, nemmeno a credere di averlo li affianco a me, proprio lui, la fonte di ogni mio dolore, e quella di ogni mia emozione.
Lo guardai per qualche secondo, poi mi precipitai tra le sue braccia, e lo strinsi forte. Forte, come non avevo mai fatto. Lo strinsi a me come se in quell'abbraccio avessi dovuto raccontargli tutte le parole che gli avevo dedicato, tutto il dolore che avevo provato, e tutto l'amore che provavo anche solo immaginandolo affianco a me.
Riassunsi tutte le emozioni, tutti i desideri e i vuoti che mi aveva procurato.
Lo tenni stretto a me, così che il mio cuore gli potesse sussurrare quanto avesse bisogno del suo amore.
E mentre mi teneva tra le braccia e rispondeva alla stretta, immaginai che stesse ricambiando quel gesto per lo stesso motivo, ed io, ero felice.
Le sue braccia mi cingevano, accarezzandomi la schiena. Io facevo lo stesso con lui e appoggiando la testa sulla sua spalla, sentivo il suo profumo, non me lo ricordavo più.
E più mi stringeva più mi sentivo protetta, a casa, più mi teneva vicino a sé e più stavo bene; quello era più di un semplice abbraccio, più di una casa, era più di un paradiso, più della felicità; era un posto, quello, che il resto del genere umano non aveva ancora avuto il piacere di scoprire, solo io avevo questo privilegio.
Lasciai che i miei occhi si bagnassero di felicità e che sbafassero trucco. Sentì che stava sorridendo.
Restammo così, abbracciati, per due fermate. Fu l'abbraccio più lungo che ci fossimo mai concessi.
Non seppi neanche io perché durò così tanto, forse entrambi avevamo bisogno di ricordare e di compensare tutti quegli abbracci che non c'eravamo dati nel tempo che eravamo stati lontani.
Quando arrivammo a destinazione, conobbi il tatuatore, che mi si presentò con un gran sorriso e guardandomi con occhi amichevolmente scuri.
Gli diede una pacca sulla spalla, si vedeva ch'erano buoni amici.
Era leggermente più basso del mio accompagnatore, più pallido, e molto più tozzo, un bel ragazzo comunque, molto solare.
Mi chiese di parlargli di me, non ero molto brava a presentarmi, ma feci intendere che ero una ragazza con la testa sulle spalle e che sapevo cosa facevo.
Mi fece notare la mia età e disse che non avrebbe potuto toccarmi. Era molto professionale.
Gli chiesi almeno di accontentare qualche curiosità e chiarii che ero venuta per una presentazione e dei consigli.
"Cosa vorresti tatuarti comunque?"
"Una rosa e una scritta."
"Come la vorresti la rosa, e dove?"
"Realistica, ed ero indecisa se farmela sul collo, vicino all'orecchio destro, o sul braccio."
"Tanto hai tempo per decidere." Disse il ragazzo che aveva avuto la pazienza di scortarmi fin laggiù.
"Per quanto riguarda la scritta?"
"La vorrei qui." e indicai il lato destro del costato sfiorando il braccio tatuato del ragazzo che avrei voluto non avesse smesso di abbracciarmi.
Lo guardai negli occhi per un istante, poi lasciai quegli occhi per andare da quelli del tatuatore.
"Posso sapere che scritta così poi ci mettiamo un po' a lavorare a un progetto?"
Ripresi lo sguardo che avevo lasciato poco prima, e rivolto a quest'ultimo, come se ci fossimo stati solo io e lui, come se fossimo stati ancora soli su quel vagone, o nella mia camera da letto, pronunciai la frase, quel pensiero che gli avevo dedicato tanto tempo prima, ma che non gli avevo mai rivelato, "Ma sappi, che in quegli abbracci così innocenti, stavamo facendo l'amore.""

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