Alzò lo sguardo verso il palazzo, le spalle curve e il cuore pesante.
Non aveva voglia di rientrare in una casa che non sentiva sua.
Desiderava invece tornare alla villa, rivedere i suoi vecchi amici, guardare il sole e bearsi del tè fresco alle quattro del pomeriggio.
Strinse tra le dita il foglietto recapitato nella cassetta delle lettere qualche giorno prima.
Non faceva altro che rileggere le parole vergate con la calligrafia di suo padre.-Abbiamo esteso la tua permanenza nella scuola. Due mesi aggiuntivi e grande trionfo al tuo ritorno.-
La carta era ormai accartocciata, stracciata da tutte le lacrime versate.
Si convinceva di non averne ancora nel proprio corpo, ma poi tornavano a sgorgare con più forza di prima.
Sospirò e aprì il portone.
Ogni angolo del corpo gli doleva. Mosse una mano alla bocca e represse un conato, aggrappandosi alla ringhiera.Si ripeté nella mente lo scopo di quella visita: prendere cambi puliti, lasciare un messaggio con su scritte informazioni per le domestiche e... non lo rammentava.
Steven era stato così chiaro.
Iniziò a provare panico.Possibile lo avesse dimenticato? Si morse le labbra, arrancando sui gradini.
Poteva farcela, non sarebbe stato difficile ricordare.
Un paio di ragazzi scesero le sale, lanciandogli un'occhiata curiosa.
Forse, si stavano chiedendo se non fosse un fantasma, visto il suo aspetto. Aaron abbozzò un sorriso e raddrizzò la schiena.Regola numero uno: sembrare normale.
Regola numero due: mai chiedere aiuto.Steven non aveva messo tanti paletti, dopotutto.
Completò un paio di rampe e si fermò a riprendere fiato. Come mai il costruttore del palazzo aveva scelto di costruirle così ripide?
Chiuse le palpebre e prese lunghe boccate d'aria, la sentì scendere nei polmoni come un balsamo dolce.«Occhi nuvolosi.»
Il cuore perse un battito.
E poi un altro e un altro ancora.Riaprì gli occhi e li puntò in quelli di Aubrey.
Il suo sguardo era dolce, così dolce, che ad Aaron venne da piangere.
Ma non lo fece.
Si limitò ad abbassare lo sguardo e passare oltre, il cuore che martellava nel petto, minacciando di voler uscire.«Ehi, dove stai andando? Aaron, sono giorni che non ti vedo» Aubrey lo bloccò per un polso.
Il moro gemette basso, ogni centimetro di pelle gli faceva male e gli ricordava ciò che faceva e perché.«Aubrey... devo andare, davvero. Non ho il tempo di restare qui a parlare» mormorò, cercando di mettere forza in quella breve frase.
Non suonò convincente. Non lo sarebbe mai stato, non con lui.«Aaron.» Aubrey lo costrinse a voltarsi. L'attenzione di Aaron si posò su tutto, tranne che sul suo volto.
Non poteva, o altrimenti sarebbe crollato.«Perché non vieni più a scuola?» domandò il biondo, cercando i suoi occhi sfuggenti.
«Io... sì, ci vengo, sei tu che non mi vedi» rispose, schiarendosi la gola.
-Steven non me lo permette.- Avrebbe voluto gridarlo, chiedere aiuto.
«Ho fatto qualcosa di male? Non mi parli più» sussurrò Aubrey, il tono di voce ridotto a un sussurro colmo di tristezza.
Aaron sussultò, fissandolo.No. Non aveva fatto nulla di male.
Aubrey era perfetto.
Aubrey era sempre stato il ragazzo perfetto.
Aprì la bocca e la richiuse. Non seppe che dire e, come al solito, ci pensò Aubrey a proseguire il loro dialogo.«Baciami, occhi nuvolosi» disse il biondo, annullando lo spazio tra loro due, cingendogli i fianchi con un braccio.
Aaron si sentì morire.
Quanto avrebbe voluto farlo.
Le iridi scure di Aubrey si colmarono di quelle dell'altro, immergendosi in quel pozzo grigio e malinconico.
Aaron deglutì, le gambe molli e il fiato corto.
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Schiavo del Mio amore Malato
General FictionQuando qualcosa si rompe, il più delle volte è impossibile riportarlo alla sua forma originale senza intravedere ancora le sottili crepe della colla, una scalfittura nel materiale, un alone di troppo. Aaron Baker lo sa bene, costretto a lasciare gli...