-La ruota inizia a girare-

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Aaron prese un bel respiro, prima di varcare i cancelli.
Fu un respiro pesante, un respiro affannato, quasi come se non ci fosse aria e faticasse a trovarla. Ma l'aria c'era, ed era persino fredda e pungente, tanto da gelargli i polmoni e fargli male nel petto.
Aveva atteso che tutti fossero entrati, aveva persino subito le tante domande di Aubrey, per poi vederlo gettare la spugna e sbuffare, allontanandosi con passo arrabbiato.

Avrebbe voluto rispondere, però non trovava le parole adatte a esprimere la sua paura.
Terrore era un termine semplice, a volte anche usato a sproposito nelle occasioni meno importanti, ma era di certo adatto alla sua situazione.

Lui vedeva la scuola come un'enorme colosso, un gigante cattivo che, non appena aperte le sue fauci, fagocitava tutto con ingordigia, senza neppure chiedere il permesso.

Il rumore delle foglie secche e della pioggia leggera accompagnò la sua lunga traversata verso le porte principali, il vetro gli mandò indietro il suo riflesso e si ritrovò a specchiarsi in due occhi affranti e spauriti. Tutto ciò che si poteva leggere in fondo a quello sguardo, era la voglia irrefrenabile di andarsene.

Eppure, non poteva. Ora più che mai, non avrebbe dovuto allontanarsi.

Non dopo che i professori gli avevano dato il benvenuto, anche se in un modo assai discutibile.
E se lo avessero già comunicato a suo padre?
Il pensiero di allontanarsi moriva in partenza, sotterrato sotto lo spesso strato di compiti e doveri pigiati sulle sue spalle.

I corridoi erano deserti. Più che normale, dato che mancavano una manciata di minuti all'inizio delle lezioni.
Aaron si asciugò il sudore dalla fronte e strinse le mani attorno al freddo della maniglia.
Se solo fosse capitato nella stessa classe di Aubrey, non si sarebbe sentito così agitato, ma il suo unico amico non era lì a proteggerlo, e avrebbe dovuto farsene una ragione.

Con il coraggio che riuscì a racimolare, sospinse la maniglia verso il basso e socchiuse l'uscio.
Si concentrò sul pavimento, evitò le occhiate degli altri e filò dritto verso il proprio banco. Si sedette, fortunatamente, nell'istante in cui le sue gambe diedero cenno di volerlo abbandonare, tremando visibilmente sotto al debole strato di stoffa indossato.

Silenzio.
Un torrido silenzio che ebbe il potere di farlo sentire una presenza scomoda, un essere inutile e superfluo.
Persino la professoressa smise di segnare l'appello, osservandolo al di sopra delle spesse lenti.

Aaron strinse la borsa contro il corpo e abbozzò un sorriso di scuse. «Mi dispiace per il ritardo. L'autobus non passava mai» mentì con voce incerta posando gli occhi sul volto della donna, e poi sulla lavagna in un moto infinito.

«Perché, voi ricchi prendete l'autobus? E io che pensavo venissi con la tua stupida macchina personale» disse un ragazzo in fondo, ridendo apertamente.

Aaron percepì i suoni tornare così come se n'erano andati. Uscirono fuori in tutta la loro potenza, le risate lo investirono come una raffica di vento forte che lo fece quasi barcollare.
Si limitò ad abbassare la testa e a chiudere le palpebre.
Un giorno. Un giorno solo e ne sarebbe giunto uno nuovo, fino a formare i cinque mesi di quella lunga tortura.

L'insegnante li lasciò chiaccherare ancora un po', e alla fine sollevò svogliata una mano per ripristinare l'ordine.
Proprio in quel momento la porta si aprì, e questa volta toccò alla figura di Steven entrare in classe, i vestiti in disordine e il fiato corto.

«Oggi avete proprio intenzione di interrompere la mia lezione?» domandò scocciata l'insegnante, sistemandosi gli occhiali sul naso con un semplice gesto di un dito.
Il ragazzo la fissò un paio di secondi prima di posare l'attenzione sul registro aperto.

Schiavo del Mio amore MalatoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora