2. Dream up

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EIRA

Non sono in ritardo, non sono in ritardo, non sono in ritardo... E invece sono maledettamente in ritardo!

Mancano cinque minuti alle otto ed io sono appena sbucata fuori dalla metropolitana, e sto correndo a perdifiato verso l'edificio che ospita la sede della Dream up.

Non so come sia potuto accadere tutto questo, mi ero volontariamente svegliata due ore prima per poter essere sicura di non perdermi in giro per la città e invece ho completamente perso la bussola. O forse dovrei dire che mi sono persa nei meandri della metropolitana.

Ho sbagliato per due volte la fermata, uscendo ovviamente a quelle errate, e quando sono riuscita ad arrivare alla mia destinazione era ormai tardi. Quindi ora mi ritrovo stremata, col fiato corto, con i capelli che sfuggono ribelli fuori dalla coda e con la tracolla che sbatte sul mio franco ad ogni passo, provocandomi fastidio e dolore.

Quando mi ritrovo davanti all'imponente grattacielo che ospita la casa di moda manca praticamente un minuto alle otto e di conseguenza non ho neanche il tempo di soffermarmi a guardarlo.

La porta scorrevole si apre in automatico appena sono lì davanti ed entro senza pensarci troppo. Sono parecchio spaventata nel costatare quello che mi aspetta, e mi sento davvero fuori luogo in un luogo così grande e lussuoso.

La receptionist mi osserva con un cipiglio e la capisco, sono entrata come un tornado, come se ne valesse tutta la mia vita.

«Posso aiutarti?» mi chiede curiosa.

«Ehm, sì. Sono la nuova stagista d-»

Non mi lascia neanche finire che mi travolge con le sue parole. «Oh, devi essere Eira Stone. Hai il pass?»

«Sì.» Anton oltre alle indicazioni per i mezzi di trasporto mi ha dato anche un pass con una mia foto sopra e con scritto stagista.

«Devi passarlo lì.» dice subito, indicando delle piccole porte scorrevoli in vetro, che a quanto pare si aprono soltanto con esso. «Ventesimo piano.»

Ventesimo piano?! «Grazie.» dico, prima di eseguire i suoi ordini alla lettera.

L'ascensore procede fin troppo veloce verso il mio piano ed è assurdamente pieno. Tossisco a causa dei troppi profumi diversi che si disperdono all'interno di questo quadrato di latta.

Appena sento la voce metallica annunciare un venti, mi precipito fuori da lì e quello che mi trovo davanti è una nuova scrivania enorme con tanto di receptionist.

«Salve, sono Eira Stone. Sono qui per lo stage.»

La ragazza dietro la scrivania mi osserva sorridente; è molto giovane, con lunghi capelli biondi e occhi castani.

«A destra, ti sta aspettando Joshua. Chiedi di lui.»

Cammino timorosa nella direzione che mi è stata indicata, e dopo pochi attimi scorgo la figura di un uomo, avrà all'incirca sui trent'anni, vestito di tutto punto e fin troppo sgargiante. Il completo che indossa è rosa pastello e tutto è abbinato, non vi è niente messo a caso o fuori posto. I capelli scuri sono perfettamente acconciati, anche se corti ha un ciuffo di tutto rispetto, ed il viso è pulitissimo. Né barba, né baffi, né imperfezioni. Gli occhi azzurri risplendono sul suo viso, donandogli un'aria affascinante.

«Joshua...» mormoro richiamando la sua attenzione.

«Eira Stone, sei in ritardo al tuo primo giorno di lavoro!» mi rimprovera, appena posa il suo sguardo su di me.

«M-mi dispiace...» balbetto a disagio.

«Stavo scherzando, tesoro!» ridacchia, iniziando a camminare ed invitandomi a seguirlo con un gesto della mano. «Il primo giorno è così per tutti: adattarsi alla vita movimentata di New York è uno strazio, soprattutto se provieni da un posto completamente diverso. Inoltre la metropolitana è impossibile per chi non ci ha mai messo piede, posso capirti. Ero esattamente come te.»

Cerco di elaborare le duemila parole che ha appena pronunciato senza fermarsi mai prima di rispondere. Sono anche abbastanza confusa, perché qui tutti sanno chi sono io e sembrano conoscere molto di me, mentre io non conosco nessuno di loro.

«In effetti non sapevo neanche cosa fosse una metropolitana.»

«Ti svelo un segreto: vengo da Rockport.» rivela, prima di entrare in un stanza piena zeppa di stoffe, manichini, vestiti, accessori, macchine per cucire.

Resto un attimo interdetta da ciò che ho davanti agli occhi; è il paradiso per un'aspirante stilista.

«Wow.» lascio sfuggire dalle labbra.

«Già... è anche la mia stanza preferita.» ammette. «Vorrei aiutarti ad ambientarti, ma siamo nel bel mezzo di una crisi epocale.»

«Una crisi?»

«Sì, proprio così. È stato affidato alla nostra casa di moda il compito di creare le nuove uniformi per la squadra di basket di New York: i New York Knicks. Nulla sembra soddisfare né il loro allenatore, né il nostro capo Dasha Cox.» sbuffa sonoramente. «Dasha vuole sempre il meglio del meglio e se neanche questo la soddisfa vorrà ancora di più e saremo noi a doverle dare tutto questo.»

«Cosa dobbiamo fare?» chiedo. Sono un misto fra preoccupazione e voglia di fare, e il fatto che il primo lavoro che dovrò fare sia questo mi rende molto allegra. Non seguo molto il basket, ma se la cosa è così grave come dice Joshua, probabilmente è molto importante.

A rispondermi, però, non è Joshua, ma una voce femminile molto acuta e leggermente famigliare.

«Tu non dovrai fare nulla! Sei appena arrivata e scommetto che non sei neanche brava quanto noi.»

Mi volto verso di lei quasi a rallentatore e scopro, con mio grande disappunto, che si tratta della donna che ieri mi ha rubato il taxi. I capelli biondi sono legati in uno chignon perfetto, il viso è perfettamente truccato, con tanto di rossetto rosso fuoco.

«Non trattare così la nuova stagista, Michelle! Non sai neanche chi è e pensi già di poterla giudicare.» mi difende Joshua fulminandola con lo sguardo.

«Non mi serve saperlo, basta guardarla e guardare cosa indossa.» risponde velenosa Michelle, squadrandomi dalla testa ai piedi con i suoi occhi marroni ridotti a due fessure. E per un attimo mi sembra di essere tornata indietro nel tempo di qualche anno, quando tutti mi giudicavano senza neanche sapere chi fossi.

«Non penso che siano dei vestiti a giudicare una persona, ladra di taxi.» sbotto senza riuscire a controllare le parole che sono sfuggite dalle mie labbra involontariamente. È davvero assurdo che fra tutte le persone che avrebbero potuto trovarsi a lavorare qui, ci sia proprio lei. Soprattutto in una città così grande come New York.

«Ladra di cosa?!» grida con voce acuta. «Non parlo con gente così stolta.» e così dicendo sparisce dalla nostra vista.

Sono parecchio sollevata che sia andata via, altrimenti avrei potuto dire altre cose che non avrebbero sicuramente agevolato la mia vita qui. In ogni caso le sue parole non mi hanno toccata affatto, ho avuto a che fare con gente come lei per tutta la vita e non sarà lei a spaventarmi.

«Lasciala stare. Fa così con tutte le nuove arrivate, è invidiosa. E poi tu sei favolosa, pagherei per essere unico come te.» dice Joshua, indicando il mio viso con una mano. «Cosa intendevi con "ladra di taxi"?»

«Appena sono arrivata qui mi ha rubato un taxi da sotto il naso.» ridacchio al solo pensiero. «E fidati... non è poi così bello essere diversi.»

«E' proprio da lei.» scuote il capo con disappunto. «In ogni caso resto del mio pensiero: sei favolosa.»

Non rispondo al suo complimento, perché mi mettono parecchio a disagio. Nessuno a parte le mie sorelle mi aveva detto una cosa simile prima d'ora e sento le guance diventare rosse.

Joshua si perde qualche secondo ad osservare la cartellina che ha in mano e poi punta di nuovo gli occhi su di me. «Sai prendere le misure?»

«Sì, certo.»

«Beh, allora andiamo!» esclama allegro. «Dobbiamo prendere le misure di sedici giocatori di basket.»

Spazio autrice ✨
Ecco a voi il secondo capitolo, spero vi piaccia!
Il prossimo capitolo sarà dal punto di vista di Blaise, quindi preparatevi
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