Capitolo XI

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Il rumore dei miei tacchi sul marciapiede mentre mi dirigo a lavoro, il caos del traffico, gli alti palazzi grigi che fanno da sfondo alla mia frenetica camminata e il cellulare che continua a squillare nella tasca della mia giacca rappresentano alla perfezione il mondo che scorre avanti veloce, mentre io rimango eternamente bloccata nel medesimo circolo vizioso di dinamiche e relazioni tossiche.

Era stato un week-end difficile quello che avevo appena passato. Tutto era iniziato non appena mi ero congedata da Villa Pence, facendo appiglio a tutto il mio autocontrollo per non mettermi ad urlare, dopo essermi chiusa in quel bagno, con il cellulare all'orecchio e il suono martellante di una telefonata interrotta, con la consapevolezza  di essermi cacciata - ancora una volta - in una situazione più grande di me.

Sul display del mio cellulare, per l'ennesima volta, riappare il nome di Connor. Il telefono continua a squillare insistente, ma rifiuto prontamente la chiamata. Di nuovo. Per tutto il tragitto così.

Da quando ho lasciato Villa Pence, sabato mattina, ho fatto di tutto per evitarlo. È tutto così surreale: il fatto che Iago, dopo avermi spinta più volte a evitare Connor per non mettere in pericolo la banda, sia in contatto con Linnet che letteralmente vive a Villa Pence è assurdo.

Ho provato a ricontattare il mio capobanda, ma niente. Non si è fatto trovare, non ha voluto darmi ulteriori spiegazioni. Ma allora perché confermarmi la presenza di Linnet alla bisca? Già questo è abbastanza complicato, se poi ci aggiungo il fatto che lo stesso Connor è sulle tracce di Linnet, la faccenda assume tinte sempre più losche e manda totalmente in tilt i miei neuroni.

È tutto parte di meccanismo astruso e a me totalmente inspiegabile. Pertanto, evitare di frequentare Connor in contesti diversi da quello lavorativo è diventato, a maggior ragione, il mio obiettivo principale.

Avergli rapinato casa era un conto, essere in qualche modo collegata al doppio gioco che sta conducendo Linnet, invece, va fuori dalla mia portata.

Nessuno può salvarmi da me stessa e da questo castello di menzogne che io stessa mattone dopo mattone, bugia dopo bugia, ho costruito. Posso solo fare una cosa: tagliare i ponti, fingere e alla prima occasione utile fuggire.

A passo svelto e con l'espressione più decisa che ho stampata sul volto, faccio il mio ingresso alla H.P. Editorials.

Faccio roteare gli occhi perlustrando i corridoi, accertandomi di non trovare Connor: non lo sopporterei, non so come giustificare le mille chiamate senza risposta, la mia uscita da Villa Pence avvenuta nel gelo più totale e le domande che vorrà naturalmente pormi.

Vedo Michael venirmi incontro, nel corridoio, con il sorriso stampato sul volto: beatamente ignaro di tutto ciò che sta succedendo e con una pila di documenti in mano.

«Luce dei miei occhi, com'è andato il weekend?» mi domanda, allegro.

«Molto bene» mento.

«Ti sei rilassata in questi giorni? Perché hai tutti questi da smaltire entro stasera, amore» mi dice mentre accolgo la catasta di documenti tra le braccia.

«Mike, questa storia che inizi ad adularmi a prima mattina solo per dirmi che dovrò sgobbare parecchio... non mi piace»

«Ma io voglio solo addolcirti la pillola»

Gli lancio un'occhiataccia, mentre lui mi porge nell'altra mano, quella non impegnata a sorreggere i fascicoli, una tazza di caffè fumante.

«E non dire che non ti dimostro il mio affetto»

«Ma è anche macchiato come piace a me!» esclamo, grata al mio amico.

«Mi perdoni?» mi chiede, provando a fare gli occhi dolci ma risulta ancora più buffo del solito.

«Ci devo pensare» ridacchio mentre, entrambi, ci incamminiamo verso la porta del nostro ufficio.

Attraversiamo il lungo corridoio della H.P. l'uno di fianco all'altro quando, alla mia destra, una porta si apre bruscamente sputando fuori l'indiavolata di Abigail, la moglie di Connor. Questa, iraconda, si sbatte la porta alle spalle e svelta, mi sorpassa, dandomi una violenta spallata.

Di proposito.

La botta mi fa perdere l'equilibrio e cado in avanti, rovesciando il caffè bollente a terra e spargendo sul pavimento i fogli che Micheal mi aveva appena consegnato. Ho la manica della giacca completamente sporca di caffè e il corridoio è cosparso di fogli bianchi.

È successo tutto in un attimo. Mentre sono a terra, intenta a raccogliere la mia roba, sotto lo sguardo stupito dei miei colleghi e sotto quello perplesso di Michael che, nel frattempo, si è chinato per terra ad aiutarmi, dalla porta dell'ufficio di Pence, lo stessa da cui è uscita sua moglie, sbuca Connor.

Ha i capelli scompigliati e si allenta il nodo della cravatta, a disagio. Squadra brevemente il corridoio in subbuglio e per un istante  impercettibile posa gli occhi su me e Michael. Non dice niente: è visibilmente scosso.

Come Abigail, attraversa il corridoio a passo spedito, implorandola a voce alta: «Abbie fermati, aspetta!»

Lo vedo sparire per le scale, rincorrendola, senza degnare nessuno di uno sguardo. Senza preoccuparsi di essere il capo e di non potersi permettere sceneggiate del genere. Niente: a lui non interessa. Le corre dietro, come un cagnolino.

Ripenso alla sera in cui sono scappata dal suo attico - qualche manfrina, qualche scusa imbarazzata - ma niente rincorse. È rimasto con lei. Ha scelto di stare con lei. Anche questa volta, in un certo senso, sta scegliendo lei incurante del resto. Incurante di me.

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