Capitolo XII

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Connor

Lo skyline diurno, che posso vedere dalle vetrate del mio ufficio, è una delle cose che più amo del mio lavoro. Mi diletto ad osservare la gente, minuscoli puntini, immersa nelle più svariate delle attività umane. Immagino i loro discorsi, gioco ad interpretare le loro vite.

La mia quotidianità ad Atlanta è diversa da come me l'ero immaginata. Questi colori, questa luce, la vitalità di questa città è linfa vitale per me, abituato ai peggio sobborghi di Brooklyn. New York City è la mia croce e la mia delizia. Così grigia, così sporca, così notturna. Le uniche cose di cui provo nostalgia sono il mio loft in mattone rosso, la mia Harley Davidson e Coney Island.

L'attico, l'ufficio al quarto piano, le cene al ristorante, i completi italiani - tutto stupendo - se solo fossero stati una mia scelta, se solo rispecchiassero davvero ciò che sono. D'altro canto, sto solamente svolgendo il mio lavoro: sono nato per questo e morirei per questo.

Con i piedi poggiati sulla scrivania e con una pallina di pongo antistress - così l'ha chiamata Erica - tra le mani, mi smarrisco nei miei pensieri. Ripenso al lavoro svolto finora, ineccepibile, se non fosse per quel piccolo e fastidioso problema di nome Olivia.

Quella maledetta. Con le sue piccole mani, la chioma nera e la pelle olivastra mi ha stregato. Vago con la mente ripensando ai lineamenti del suo volto: il naso all'insù, gli enormi pozzi neri al posto degli occhi, la curva sinuosa delle sue labbra piene ma scuoto la testa, cercando di cancellare l'immagine di lei.

Non deve accadere.
Ma deve accadere.

Diamine, è tutto così complicato e allettante e lei così sfuggente e inafferrabile.

La porta del mio ufficio si apre con un colpo secco, Abigail entra senza bussare. Alzo gli occhi, affrettandomi a scendere con i piedi dalla scrivania ma mi rilasso subito non appena realizzo che è lei.

«Buongiorno a te Abigail, nervosa stamane?» rispondo infastidito mentre mi ricompongo sulla sedia.

«Buongiorno un cazzo! » sbotta lei.

«Abbie, sono solo le otto di mattina, ti prego» le sorrido appena, cercando di stemperare la tensione, ma non funziona.

«Mi spieghi cosa ti è passato per la testa, Connor?» urla sbattendo la sua costosa borsetta di pelle sulla mia scrivania.

«Ho tutto sotto controllo!» mi difendo.

«L' hai portata a dormire a Villa Pence! Sei un'idiota o cosa? Stai mandando tutto a puttane!»

«Non sto mandando a puttane proprio niente! L'ho portata lì di proposito e la sua reazione è stata a dir poco impagabile» cerco di spiegarle.

«Lo sai cosa me ne faccio di una reazione impagabile?»

«Niente, lo so. Ma abbassa la voce!»

Riprendo tra le mani la pallina di pongo, cercando di rilassarmi. La tensione tra me e Abigail rischia di far implodere la stanza. Se non fossimo stati qui, sono sicuro che mi sarebbe già saltata addosso. Se c'è una cosa che ho imparato in questi anni è quella di non farla mai - e dico mai - arrabbiare in pubblico. Pena una denuncia, una figura di merda, una cambiale per risarcimento danni.

«Ti servono prove», cerco di dire calmo, «E le avrai. Devo solo capire come fare. È un osso duro, le sto provando davvero tutte. Ma siamo sulla buona strada: conosce sicuramente Linnet, appena l'ha vista è scappata via a gambe levate»

Abigail prende un respiro profondo, cerca anche lei di controllarsi. Stringe con forza i braccioli di pelle della poltrona su cui è seduta e punta le sue iridi azzurre nelle mie.

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