Capitolo XXV

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Parigi, tetti azzurri e cieli tersi
mi dissolvo tra le strade
con addosso milioni di sguardi persi
e più niente che mi dissuade
dal compiere il mio dovere
è questo il prezzo della mia libertà?
è questo il prezzo del mio cadere?
eppure, perduro nel fraintendere
in una stanza affollata, ad esempio,
è al tuo sguardo l'unica cosa a cui mi voglio appendere.

– O.

Fisso le righe che ho appena buttato giù, sulla carta ingiallita del mio inseparabile taccuino. I miei occhi scorrono sulle parole che ho rapidamente scritto, per paura di dimenticarle, pensate mentre osservavo malinconica la vista del sole che tramontava sulla Ville Lumière, dalla vetrata nella della hall del Grand Hotel de Pigalle. Seduta su una poltrona bianca in pelle, torno a concentrarmi sul piano, guardando l'orologio che porto al polso.

Oggi è il grande giorno.

Scruto l'andirivieni di persone, alzando gli occhi dalle pagine scarabocchiate che trattengo in grembo: la sala è invasa dalla luce dorata del sole che cala, in questo tardo pomeriggio d'estate. Mi concentro sui suoni: sullo squillo dei telefoni, sul mormorio indistinto dei receptionist dietro al bancone e sul rumore delle valigie che strisciano sul granito.

Tutto regolare.

Decido di alzarmi, dirigendomi verso il piano bar. Ho bisogno di buttare giù qualcosa di forte, per allentare la tensione che questa situazione mi provoca: devo mantenere la lucidità. Mi proietto mentalmente al termine di questa giornata, quando tutto sarà finito e il peso che mi attanaglia il petto allenterà la sua morsa. Se tutto andrà bene.

«Qu'aimeriez-vous boire, mademoiselle?» mi domanda un barista moro, con un sorriso ampio che mette in mostra la dentatura perfetta.

Mi sfilo i guanti e li poggio sul bancone di marmo mentre rifletto su cosa ordinare. Ancora non mi capacito della mia eleganza: i capelli raffinatamente raccolti, il foulard annodato in gola e il capello di feltro beige. Le mie labbra sono tinte di un rosso ciliegia, lo stesso colore che mi decora le unghia perfettamente limate. Tutto questo, dagli orecchìni in perla alle Louboutin, fa parte della mia copertura.

Sono un'annoiata ragazza ricca che ha preso una stanza al Pigalle. Per la precisione, la numero 203, posta strategicamente di fronte a quella di Linnet Rogerway. Gli occhiali da sole mi celano parzialmente il viso e, all'occasione, li aggancio alla camicetta di raso per guardarmi meglio intorno: tipo adesso.

Sorrido a mia volta al barista, dopo averlo osservato bene mentre era indaffarato con gli altri clienti e decido di ordinare un calice di vino bianco: «J'voudrais un verre de Chardonnay, s'il vous plaît» chiedo garbatamente, calandomi nella parte.

Il ragazzo si volta, afferra una bottiglia e comincia a versare il mio alcolico. La maglietta nera,a maniche corte, lascia intravedere i bicipiti muscolosi. Il mio sguardo deve indugiare un po' troppo su di lui, tant'è che il moro incrocia lo sguardo con il mio, cogliendomi in flagrante. Mi sorride malizioso e, con una spiccata sfacciataggine, ricambio mordendomi lievemente il labbro inferiore. 

Mi guardo ancora l'orologio che porto al polso. Mancano quattro lunghissime ore a quando, secondo il piano, Abigail e Maurice – sotto le mentite spoglie di due camerieri – entreranno in camera di Linnet e faranno in modo di farla posizionare, anche per un breve minuto, vicino la portafinestra che da sul piccolo balcone della sua camera. Poi, tutto dipende a me, dalla mia precisione, dal mio sangue freddo. Sento, a maggior ragione, il desiderio di alleggerire la tensione. Ho una responsabilità enorme: scrivere la parola fine spetta solo ed unicamente da me.

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