La taverna

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Pensò bene a cosa rispondere, la proposta di Cassio di bere qualcosa era rischiosa.


Era vietatissimo bere in servizio, non grave come modificare il flusso temporale, ma molto spesso le due cose potevano coincidere. Bere alcolici gli avrebbe annebbiato la mente, rallentato i riflessi, e avrebbe fatto schizzare alle stelle il suo basso tasso di avventatezza.

Poi ripensò alla settimana prima, o sette secoli e mezzo dopo. A quando il volto di Cassio si era spento per un attimo perché lui gli aveva detto che non avrebbe bevuto neanche un bicchiere.

“Perché no?” rispose, già pentito di quello che aveva detto. “Andiamo in osteria!”

Camminarono in mezzo alla calca sino a essere sputati fuori dal castello. Davide si guardò intorno in cerca di templari o guardie armate, ma i pochi presenti sembravano prestare attenzione a chi era in entrata, piuttosto che in uscita. 

Aveva un’arma con sé, e per di più non aveva potuto uccidere la guardia che li aveva sorpresi insieme in cella, che era quindi in grado identificarli. Sarebbero dovuti stare più attenti che mai. Fu questo che disse a Cassio mentre uscivano sulla piana pugliese, sussurrando che avrebbero dovuto stare in guardia.

“Non ti stressare,” rispose lui, con noncuranza. “Faremo fuori il caro vecchio Pierre giusto in tempo, non ci scoprirà nessuno.”

“Se lo dici tu…” mormorò, prendendo la via principale che si dipanava dal portone del castello.

Cassio lo condusse in città, un ammasso di casupole una sull’altra che si disponevano intorno alla via che avevano imboccato, che ne costituiva il cuore. Le strade erano affollate e frenetiche, in un brulicare serrato che non accennava a diminuire man mano che avanzavano. Il cielo era terso, non c’era una nuvola a guastare quel turchese intenso, e il sole  picchiava sulla piana e sulle persone indaffarate che la popolavano. Garzoni con i sacchi delle consegne, bambini che si inseguivano per strada, botteghe aperte e con una buona affluenza e sarte sedute fuori dalle porte delle case a cucire. 

L’aria aveva un intenso odore di cavallo, paglia e pane appena sfornato, e Davide notò che le persone che lo circondavano avevano tutte i capelli appiccicati alla testa dall’unto. Rabbrividì.

“L’Osteria sarà anche il nostro alloggio,” spiegò Cassio, mentre lo guidava verso un edificio dall’aspetto poco rassicurante alla fine della via. 

Era di tre piani, tinto di un colore giallastro e dall’aspetto traballante. Il muro era macchiato di muffa, al balcone all’ultimo piano mancava un pezzo e aveva la porticina spalancata. Non si vedeva insegna da nessuna parte.

Davide deglutì. Iniziava a essere sempre meno convinto della sua decisione, ma si disse che nel tredicesimo secolo non avrebbe potuto trovare qualcosa di molto meglio di così.

Cassio fu il primo a entrare, e lui lo seguì a ruota. L’interno era meno squallido dell’esterno, gli infissi in legno avevano l’aspetto solido, le due tavolate al centro della stanza dove stavano seduti gli avventori erano spaziose e pulite, e Davide ebbe l’impressione che il bancone fosse stato lucidato da poco.

Tutto il locale era permeato da un odore forte e acidulo, che fece arricciare il naso al ragazzo. “Oh cielo,” mormorò, seguendo Cassio verso il bancone.

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