56."Dolore, paura e speranza"

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<<Ho lasciato che lui mi picchiasse, per otto lunghi mesi, e non ho mai fatto niente>>

Aveva sussurrato quelle parole, flebilmente e delicatamente, come se sperasse che il vento, che le colpiva il viso gelido, se le portasse via, trascinandole lontano da lei e dal suo cuore.

Le aveva dette, mentre lo squarcio nel suo petto faceva sanguinare la sua anima, lentamente e con agonia, come se volesse farle sentire ogni briciolo di dolore, che le scuoteva il corpo e gli organi in esso.

Non c'era centimetro di lei, che non tremasse violentemente per quell'ammissione, che mai avrebbe pensato di poter dire, seppur in un sussurro flebile, ma che lui aveva udito fin troppo bene.

Non c'era modo per Isabella, d' incontrare nuovamente quegli occhi scuri. Non quando la paura le strisciava sulla pelle, affondando gli artigli nella sua carne gelida e morbida, e il terrore di vedere in quelle iridi, il disgusto, le contorceva le budella.

Sapeva, che il suo cuore non lo avrebbe mai retto, semmai avesse visto la delusione e la vergogna in lui.

Guardò il suo vestito, che le svolazzava sulle gambe, e sui cui le sue mani si stringevano strettamente, e rabbrividì quando vide le sue scarpe sportive avvicinarsi di alcuni passi a lei.

Abbassò la testa, e si portò le mani alle braccia, come se volesse costruirsi attorno una barriera, per proteggere lei, e il suo cuore.

Non lo voleva vedere, quel giudizio in quegli occhi scuri. Avrebbe potuto accettarlo da chiunque, ma non da lui.

L'avrebbe uccisa, torturata e addolorata, sapere di non essere altro, che un disgustoso essere umano per lui.

Lo aveva accettato dai suoi parenti, dalle sue zie, che aveva pensato l'avrebbero sempre amata, dai suoi zii e persino dalle sue cugine, con cui aveva passato la sua infanzia, crescendo come sorelle.

Riusciva ancora a sentire i loro occhi pieni di giudizi su di lei, mentre varcava, per la prima volta dopo mesi, la porta della casa dei suoi genitori.

Le sue orecchie, potevano ancora udire le loro parole, che non si erano preoccupati di nascondere o sussurrare a voce bassa.

No, perché volevano che lei le sentisse, sulla sua pelle e sulla sua anima. Volevano che lei le ricordasse per sempre, come un promemoria di quanto rivoltante e stupida fosse.

Le persone che lei aveva amato, e considerato una famiglia, volevano che lei rimembrasse per sempre quegli occhi pieni di giudizio, che l'avevano perseguitata durante la notte, per poi risuonare, come un mantra incessante, nella sua mente durante il giorno.

E lei, riusciva ancora a percepirle nelle sue orecchie, come se quei sussurri fossero evasi dalla scatola in cui lei li aveva rinchiusi, con una chiave fin troppo debole e delle catene già arrugginite.

<<Per favore, portami a casa>> sussurrò, cercando di non affogare con le lacrime che stava trattenendo, e di non tremare violentemente davanti a lui.

Quando alcune dita, ruvide e delicate, le sfiorarono il viso con una carezza, che lei pensò di essersi sognata, e il corpo caldo di Jonathan si fece ancor più vicino, proteggendola da quel vento freddo e arrabbiato, si rannicchiò, stringendo le braccia attorno a se stessa.

<<Voglio solo andare a casa, ora>> mormorò, percependo la sua gola secca e il groppo, che le rendeva difficile respirare normalmente, farsi ancor di più pesante.

Si allontanò, quando quel tocco, prima leggero, si fece più insistente contro la pelle della sua guancia, e respirò profondamente, quando quel profumo maschile le infiammò i polmoni.

Perso Senza Di TeWhere stories live. Discover now