Capitolo 16.

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«Per alcuni di noi la felicità è il più terrificante dei mostri. Ti rende fragile come un castello di carta, e la consapevolezza che è sufficiente la più leggera delle brezze per farti crollare in un milione di pezzi ti spinge a nasconderti nelle tenebre, a rimanerci, dove nulla può scalfirti - perché non si può uccidere chi ha smesso di vivere, chi respira e basta.»
Succubus - 97ShadesOfSam

Rantoli strozzati, respiri smorzati da un dolore lancinante alla schiena e alle costole

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Rantoli strozzati, respiri smorzati da un dolore lancinante alla schiena e alle costole. Nell'oscurità della notte, dentro una minuscola camera anonima, illuminata da un flebile bagliore di una luce artificiale, Samaele cercava di curarsi le ferite e gli ematomi procurati dal bastone di suo padre. I ricordi di quella mattina gli inondarono la materia grigia di immagini raccapriccianti. Doveva fuggire il prima possibile, era l'unica via di salvezza.
Matteo si era divertito a lasciargli i segni di un castigo violento, doveva imparare la lezione di non avvicinarsi troppo a chi aveva causato solo dolore.

Dopo essere scappato dalla follia di Alberto, si era rintanato nel garage dove il fratello maggiore e il padre tenevano fieno, attrezzi da lavoro, ceppi di legno per tenere al caldo animali o riscaldare il camino durante le sere invernali. Aveva trovato un posto sicuro dove riposarsi, restare isolato dal resto del mondo. Poteva versare tutte le lacrime, fino ad addormentarsi, ma il volto sofferente di Matilde non riusciva ad andarsene dalla sua testa.

Lei era dentro i suoi organi, nelle pieghe del cervello, nel sangue scarlatto e avvelenato dalle ingiustizie subite. Aveva trovato un barlume di bellezza in tutta la sua sofferenza. Doveva reagire in qualche modo, ma era stato abituato a nascondersi, correre il più veloce possibile lontano dai propri demoni. Succhiavano cruore carminio dalle vene, lo prosciugavano fino a prendergli l'anima. I polmoni erano mangiatori famelici d'aria, non gli davano un minuto di tregua. La paura di essere scoperto era più forte di ciò che sarebbe potuto succedere da quel momento in avanti.

«Samaele!» un urlo grottesco pieno d'ira e odio si propagò nell'aria. Sperava di diventare invisibile, di non essere scoperto da mani maligne. Suo padre era uscito a cercarlo, aveva sentito gli spari del fucile di Alberto. Era tornato con il suo furgone dall'allevamento intensivo e non appena scese, due colpi di doppietta tremarono nel vento. Alzando la testa verso il cielo pieno di nuvole e pioggia, notò uno stormo di corvi spaventati precipitarsi verso un'illusoria salvezza. A quell'ora, nessuno si sarebbe messo a cacciare selvaggina, sempre se non si trattasse di Alberto. Pur di non venire a lavorare, inventava ogni scusa plausibile per non prestare attenzione alle sue mansioni. Si ritrovava spesso a ripulire la cella frigorifera dal sangue coagulato a terra o sulle piastrelle blu cobalto, rendendo la stanza ancora più fredda e desolata. Odiava quando lo vedeva ancora mezzo ubriaco, dopo aver perso il suo stipendio a carte e birra da poche lire. Abbandonava nella disperazione i ricordi della sua vita ormai in frantumi in seguito alla morte di sua moglie. Dopotutto, era anche colpa sua.

Qualche minuto più tardi, notò da lontano una coltre di ricci rossi correre verso il piccolo deposito dietro la loro casa dalle pareti bianche e fatiscenti.
Non appena collegò suo figlio con gli spari, un presentimento nelle vene iniziò a scorrere imperterrito come l'alcool del vino rimasto per troppo tempo a fermentare in una notte scura, piena di incubi e immagini di un passato impossibili da dimenticare. Alberto e Matteo erano collegati insieme da un evento troppo crudele, ma la colpa era solo dei suoi figli. Se solo non li avesse lasciati andare insieme a sua moglie, avrebbe ancora qualcuno da poter abbracciare nelle sere di luna piena, fare l'amore e addormentarsi all'alba dopo averla vista chiudere le palpebre sul petto coperto da alcuni vecchi tatuaggi, incisi durante il periodo di guerra. Avrebbe voluto salvarla, ma il destino la pensava in modo diverso.

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