Capitolo 1.

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Il vento soffiava forte quel pomeriggio di un'estate in procinto di morire tra le braccia dell'autunno. I fiori, insieme alle piante del giardino di un'abitazione invecchiata, dispersa in mezzo alle colline solitarie, si muovevano veloci, avanti e indietro, a ritmo di una danza troppo frenetica. Qualche petalo di rosa e ginestra si staccava insieme ai rami secchi di un noce centenario, volando leggiadri tra i prati vicini. Molto spesso ci si riuniva sotto quel rugoso tronco per prendere un po' di frescura, durante le mattinate piene di sole, dopo essere stati immersi nei campi di grano a bruciarsi la nuca.

Ululati lontani si sparsero come echi in tutta la vallata, ma tra le quattro mura in mattoni rossastri, una finestra era spalancata, quasi a voler accogliere a braccia aperte il vento imperioso e sentirlo percorrere in ogni centimetro della casa, portando con sé i profumi della natura e dell'erba bagnata, da inebriare l'intera sala da pranzo. La luce grigiastra delle nuvole, così dispettose da non voler far entrare i raggi del sole, rendeva l'atmosfera cupa. Illuminava i contorni pallidi di due ragazzi in procinto di concludere una partita a scacchi. I ticchettii delle pedine erano l'unico suono innaturale da propagarsi in tutte le stanze. Il tavolo in legno scuro reggeva la scacchiera al centro, mentre ai lati pedoni, torri e alfieri erano i trofei di ogni mossa vinta. Il silenzio era quasi palpabile, quattro occhi vispi andavano a destra e a sinistra, come un tic nervoso, in modo da osservare e prevedere ogni mossa. Erano rimasti pochi pezzi ancora in gioco, ma nessuno dei due voleva perdere: una battaglia all'ultimo sangue.

I capelli di entrambi, di un nero lucente come quello delle piume dei corvi, dondolavano cullati dalla brezza dolce di quel vento desiderato ormai da mesi. Immobili come statue si scrutavano a vicenda, l'uno nelle iridi dell'altra, quasi a volersi parlare solo con un paio di occhiate furtive. Quelle azzurre del ragazzo, davanti alla piccola e minuta immagine illuminata dal grigiore del cielo, si perdevano a osservare ogni sfumatura dell'ambra, impressa nella perfetta rotondità dell'iride, fino a entrare dentro il nero delle pupille.
Aspettavano impazienti le ultime mosse per poter decretare il vincitore, mai uno stallo, mai una patta; con loro due si vinceva o si perdeva.

«Donna in D8, scacco matto» la voce della ragazza dallo sguardo impassibile fermò il silenzio. Si mosse con una velocità da spezzare il tempo in un solo gesto della mano, fino a far collidere il legno grezzo della pedina contro quello della casella scura, facendo sussultare anche l'anima.
«Non riesco a crederci Mat...» disse aumentando di un tono la voce «Con te è impossibile vincere in qualsiasi gioco» alzò le mani in segno di resa, mentre gli angoli della bocca si sollevarono in un sorriso sghembo, ma allo stesso tempo ferito per l'ennesima sconfitta. I denti, leggermente ingialliti dal fumo, si intravedevano in mezzo alle labbra screpolate: rideva per l'incredulità e dallo sconforto di essere stato battuto da una donna.

Matilde si rimise gli occhiali, stecche sottili come steli di grano e due spesse lenti tanto da aumentarle le pupille di due gradi «Ti fai fregare così facilmente che nemmeno te ne accorgi, mio caro Christian» cercò di abbozzare un sorriso, ma quello che ne uscì fu soltanto una smorfia. Lei i sentimenti li aveva annebbiati, non riusciva a decifrarli. Guardava il mondo senza farsi notare, gli occhi parlavano al suo posto e le sue espressioni faticavano a emergere; annegate nei ricordi di un passato troppo sbiadito.

«Vorrà dire che oltre alla fila di pane fresco, dovrò portarti una brioche come premio domani mattina» sentenziò, mentre le sue dita veloci e sottili raccoglievano le pedine per risistemarle dentro una sacca in pelle insieme alla scacchiera. Christian era figlio del mugnaio, abitavano sopra il panificio del paese non poco lontano dalla casa di Matilde. La madre dirigeva quelle quattro mura così egregiamente da essere considerata la migliore in circolazione. Aveva un debole per la ventenne dai capelli color pece e quando poteva, mandava suo figlio a portarle regali di ogni tipo: da dolci fatti in casa al pane appena sfornato. L'odore di lievito inebriava le narici di chiunque passasse in quella via e quando Christian veniva a portare qualche baguette su commissione, lo si poteva riconoscere anche da lontano per il profumo dell'impasto e della farina che si portava dietro, come un'ombra, per tutta la cittadina. Era così piccolo il posto da conoscere quasi tutti, le mura diroccate erano troppo sottili per le orecchie aperte e le lingue lunghe delle donne più anziane. Si divertivano in piazza a raccontarsi gli ultimi pettegolezzi e a guardare di sottecchi ogni profilo provasse a intrecciare i loro passi. Matilde infatti cercava di essere il più invisibile possibile, non amava intrufolarsi in paese a causa delle occhiatacce di quelle signore, sedute sui gradini della loro soglia, intente a ricamare o a stendere i panni. Si sentiva a disagio e una ragazza troppo silenziosa era mirino facile per gente con la bocca sempre aperta. Amava, però, osservare gli uomini afferrare energici sedie e tavolini in plastica, durante i pomeriggi dei fine settimana, prendere tra le mani le carte napoletane e iniziare a giocare. Si sentivano urla, schiamazzi e bestemmie contro chi voleva fregare o chi vinceva di continuo: una specie di sala giochi all'aperto, ma senza spendere un solo centesimo. Quei momenti di festa, nascosti dalle fronde verdi e rigogliose dei platani, erano più unici che rari, non sempre si vedevano. Amavano di più restare tra i campi di grano, sui loro trattori arrugginiti, per racimolare qualche soldo in avanzo per portarli orgogliosi a casa e regalare ai loro nipoti nuove salopette o una barretta di cioccolato.

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