Capitolo 3.

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Le campane della chiesa suonavano a festa. Forti rimbombi di note acute si sparpagliarono per le strade del paese, ricolme di gente smaniosa, eccitata, nel preparare tavoli, posate, giochi a tema al solo scopo di divertire grandi e piccini. La musica celtica medievale iniziò a riempire l'aria di attesa, facendo tremare i sampietrini a ritmo delle note giocose. Ballavano anche le foglie larghe, spigolose, dei platani della via principale, la quale sfociava in una piazza piena di negozietti di artigianato e prodotti locali. Il panorama si stagliava sotto le mura della città, imponente ma allo stesso tempo ammaliante, da riuscire a fermare uomini e donne sull'enorme balcone in pietra, per godersi l'aria fresca, colorata da milioni di sfumature di azzurro. Si potevano osservare strade di campagna, macchine correre veloci sull'asfalto, come piccole formiche in cerca di un riparo, case in via di ristrutturazione. Fabbriche e industrie sbuffavano vapori scuri in lontananza, maestose costruzioni bianche da rovinare pianure incolte e alberi senza più radici; si perdevano a vista d'occhio come un errore di sistema. Sembrava di essere catapultati in un altro universo dove poter spiare dall'alto la vita scorrere sotto il naso, dimenticati dal resto del mondo.

Negli albori di una sera d'agosto, i raggi solari non ne volevano sapere di tramontare dietro le verdeggianti colline. Poco lontano, oltre le mura, dispersa tra la vegetazione, il frinire dei grilli e il garrire delle rondini, dalla finestra della casa in mattoni rossi si sentivano corde di violoncello vibrare, frementi di poter essere ascoltate da gente estranea.
Alberto ci sapeva fare con quello strumento, riusciva ad ammaliare anche il bambino più timido. La sua corporatura goffa e piena si ridimensionava tutte le volte che aveva tra le mani le quattro assi di legno lucide, ben curate dall'usura. Chiudeva gli occhi e si lasciava trasportare dalle note dell'archetto sempre in movimento, le dita si apprestavano leste come zampe di ragno a non sbagliare neanche un accordo.
A Matilde piaceva ascoltare suo padre, vederlo sorridere senza avere la solita espressione burbera e austera, la distraeva dalla costante paura di poter adirare la sua psiche, stanca delle persone irrispettose, del lavoro troppo opprimente da portargli via le forze.
Se ne stava seduta, sprofondata nel vecchio divano, coperto da un lenzuolo blu, a volteggiare con la mente nei ricordi e nel passato, al quale non le era mai permesso scavare nelle zone più recondite, seppellite dentro a un muro di cemento armato.

Un suono grave e frizzante al tempo stesso si amalgamava con l'eco festoso della cittadella. A ridestarli dal breve momento di pausa, in cui gli occhi ambrati di Matilde si imbatterono in quelli gioiosi di Alberto, un'entrata teatrale di Christian fece ridere di gusto il suo pancione gonfio, andando a ritmo di musica. Proveniva dalle scale a chiocciola in legno scuro, davano accesso alle camere da letto del piano superiore. Si era cambiato i vestiti nella stanza di Matilde, lasciandola completamente a soqquadro. Ormai era talmente abituato a stare con lei tra le piccole mura, da essere classificata come il suo rifugio preferito dove potersi nascondere dalla realtà. Lo scricchiolio delle scale si fermò di colpo appena i suoi piedi ancora scalzi si rinfrescarono col pavimento freddo del salone. Indossava una camicia larga di lino bianco e dei calzoni chiari a sbuffo fino a metà ginocchio, per poi assottigliarsi fino alle ossute caviglie.

«Che ve ne pare? Non sembro un trovatore, un cantante di gesta eroiche vero e proprio?» chiese sornione, facendo una piroetta e atterrando maldestramente sul posto, mentre le maniche ampie della camicia, gli rendevano le sottili braccia ancora più scheletriche. Dei lacci erano stati intrecciati a formare una spina di pesce in mezzo al petto, per nascondere lo sterno, ma la pelle rosea si divertiva a giocare a nascondino col candore di fili delicati.
«Non ti avvicini neanche lontanamente, Chri» ironizzò la ragazza, seduta a gambe incrociate sul divano. Le ossa e il menisco creavano curve soffici sotto la pelle chiara e si muovevano come ali di farfalla a ritmo di musica.
«La solita guastafeste, che ne sai tu?» alzò gli occhi al cielo e si avvicinò a lei con un inchino «Almeno mi conceda, mia signora, questo ballo prima della festa in paese?» domandò con voce più profonda e roca, da mimetizzarsi col suono del violoncello.

Anime dimenticate.Where stories live. Discover now