Capitolo 1 - II: Istanbul

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La prima giornata di sole dopo una settimana di pioggia e freddo.
Decisi di fare una passeggiata lungo il Bosforo e comprare un simit da un ambulante, una ciambella di pasta lievitata con il sesamo sopra, non avevo appettito ma almeno era caldo e lo stringevo tra le mani per scaldarmi.
Ero arrivata a Istanbul a fine settembre, le temperature ancora miti permettevano di andare in giro a maniche corte ma l'autunno che arrivò fu particolarmente freddo.
Leila era venuta a trovarmi durante il ponte dell'otto dicembre e anche lei non si aspettava tanto freddo.
Erano passati quasi tre mesi da quando mi ero trasferita a Istanbul e ancora non riuscivo a smettere di pensare a lui. Quando avevo nostalgia toccavo la collana che mi aveva regalato e un po' svaniva quella sensazione di vuoto. Era l'unica cosa che mi rimaneva di lui. Non so perché non gliela restituii insieme all'anello ma dal giorno in cui me la regalò non la tolsi più.
Quella sera andai diretta alla stazione di Napoli e presi un treno per Roma. Durante il tragitto chiamai Sara, le raccontai tutto, provò a convincermi di ripensarci, di trascorrere qualche giorno sola e poi magari prendere una decisione più ponderata ma non servì a nulla, non servirono neanche le urla di Leila al telefono e le suppliche di Michele. Avevo bisogno di staccare la spina, di cambiare vita. Cambiai numero di telefono, inviai una lettera di dimissioni e pregai Sara e Leila di non dire ad anima viva dove fossi diretta. Non volevo che nessuno mi cercasse, non volevo che John mi cercasse o si sentisse in dovere di farlo. Michele mi chiamava spesso, mi pregava di dirgli dove fossi, Leila era una tomba, non riusciva a sfilarle nessun indizio ma non potevo rischiare, se lo avesse saputo prima o poi sarebbe andato da John a spifferarglielo anche se mi raccontarono che il giorno in cui scoprì che avevo dato le dimissioni non chiese più niente di me.
Michele diceva che era ritornato ad essere cupo e intrattabile, anche con lui era cambiato, non uscivano più insieme e non parlavano più come un tempo. Di più non sapevo anche perché non lo nominavo e volevo che chiunque parlasse con me non lo nominasse. Ogni volta che sentivo il suo nome era così doloroso da essere insopportabile.
I miei genitori rimasero sconvolti, provarono a dissuadermi, mi proposero di ritornare a Roma con loro, ma la mia cura era tutt'altra.
Quando Rania mi venne a prendere all'aeroporto e mi corse incontro abbracciandomi, non riuscii a trattenere le lacrime, non avevo mai pianto per quanto successo ma in quel momento fu come una catarsi. Dopo di allora non piansi più, neanche una volta, forse sarebbe stato meglio continuare a fare uscire quelle lacrime e con loro tutto il malessere che mi portavo dentro ma non lo feci, lo lasciai lì insieme al vuoto nello stomaco a ricordarmi di quanto fossi stata sprovveduta a mettere tutta la mia vita nelle mani di un'unica persona.
Ero ritornata alle origini, a fare il terzo incomodo a casa di mia sorella, stavolta di Rania. Lei e suo marito Alex avevano una bellissima casa nel quartiere di Ortakoy. Avevo una camera tutta per me, erano stati sin da subito gentili e ospitali.
Mio cognato Alex conosceva perfettamente l'italiano, fortuna, anche perché quando parlava turco non capivo una virgola e lo stesso succedeva quando si rivolgeva in tedesco a mia nipote.
Lui era per metà tedesco, da parte di madre e metà turco da parte di padre. La loro bambina Anna era un amore ed era il mio impegno quotidiano non avendo altro da fare. I primi dieci giorni mi dedicai a farle da babysitter così da lasciare un po' di spazio e tempo a mia sorella ma durò poco, perché una mattina mi mise davanti al fatto compiuto.
"Allora Isi, basta oziare e piangersi addosso, devi trovarti un diversivo, un passatempo, un lavoro, fai qualcosa?"
"Ma cosa dovrei fare? Non conosco la lingua, che lavoro potrei mai trovare?"
"Te l'ho trovato io, di solo di sì!"
Non potevo dirle di no, non volevo essere un peso per loro e non volevo farla preoccupare.
Più che un lavoro mi aveva trovato un passatempo, mi chiese di dare una mano a una sua amica, una certa Alice, che gestiva un locale insieme a suo marito Mete, aveva bisogno di qualcuno che le spiegasse come utilizzare la nuova macchina dell'espresso. Fortunatamente lei era italiana e suo marito si faceva capire bene, non fu difficile aiutarla.
Ben presto quello che era nato come un diversivo alla fine divenne il mio lavoro. Quando lavoravo di mattina mi occupavo delle colazioni mentre la sera servivo da bere. Non avevo bisogno di conoscere il turco, le comande mi venivano girate direttamente da Alice in italiano, così da permettermi di lavorare senza avere complicazioni.
Mi piaceva il posto e soprattutto mi piaceva lei. Nonostante fosse minuta nell'aspetto aveva una grande energia, mi faceva piacere passare del tempo con lei e alla fine diventammo amiche.
All'inizio non le diedi molta confidenza, non perché avesse qualcosa che non andava ma non riuscivo a condividere nulla con nessuno, mi ero chiusa in me stessa in una modalità probabilmente di protezione.
Fu molto paziente e pian piano conquistò la mia fiducia e io la sua. Devo ammettere che fu anche grazie a lei che cominciai a ridare un po' di semplice vivacità alla mia vita.
Mi coinvolgeva spesso portandomi con lei, conobbi molti dei suoi amici che tra l'altro frequentavano il locale. Continuavo a parlare con loro solo inglese e con quei pochi che lo conoscevano l'italiano, di turco non capivo ancora nulla, riuscivo a comprendere giusto qualche frase ma solo detta piano, il che era già tanto.
Quando non capivo ripetevo a oltranza evet o tamam, significavano sì e va bene, così alla fine a forza di ripeterle a tutti per gioco mi appellarono tamam bayan, signora va bene.
Cominciai sempre di più a prendere confidenza con la città, mi piaceva soprattutto perché aveva qualcosa di simile a Napoli e quello mi creava, a volte più, a volte meno nostalgia.
Manteneva intatto un fascino di mistero nei suoi vicoli stretti, nella parte più antica e nei minareti che svettavano alti e si imponevano nel profilo della città ma allo stesso tempo, a nord del Corno d'Oro, sfoggiava la modernità dei grattacieli, delle nuove costruzioni e dei sfavillanti centri commerciali.
Scoprii una città conservatrice e feria e allo stesso tempo moderna e giovanile, cominciai ad apprezzare la cucina turca che andava ben oltre il semplice kebab e ad alternare il caffè con il loro thè nei calici a tulipano.
Con Alice e Rania andavamo, appena possibile, a svagarci nelle vie dello shopping di Nisantasi e ci trastullavamo nel nostro quartiere, Ortakoy pieno di Caffe e locali.
Ma il posto che amavo di più era il lungomare, mi sedevo sulla panchina ad osservare il tramonto scendere dietro la moschea. Era bello come il tramonto di Napoli, quando il sole scendeva nel mare e rifletteva la sua luce sulla facciata di Castel dell'ovo.
Ad Alice non raccontai subito né di Napoli né della mia storia, anche se immaginai che mia sorella le avesse accennato qualcosa, mi confidai con lei un pomeriggio, non dovevo lavorare ed ero andata al locale per farmi offrire un thè.
Non so perché parlai di lui, forse il passare del tempo mi aveva reso più forte, mi sentivo più forte, il suo ricordo era sempre vivo ma forse meno doloroso, avevo cominciato ad accettare che non lo avrei più rivisto. Anche il senso di rabbia nei suoi confronti stava svanendo. I primi tempi ero così arrabbiata con lui, non avrebbe dovuto parlare in quel modo quel giorno, avrebbe dovuto difendere il nostro rapporto e rassicurarmi che insieme avremmo affrontato di tutto, in fondo era quello il senso del matrimonio. Col senno del poi mi convinsi che non aveva ben chiaro cosa eravamo in procinto di fare. Capivo la sua paura, un figlio è una cosa importante, ma anche io dovevo essere importante per lui e invece non era stato capace di mettermi da parte.
Ci ragionai molto e capii che forse era stato meglio così, avevo preso la decisione giusta andandomene via, non avrei sicuramente saputo gestire il fatto che Melania sarebbe stata per sempre nella sua vita, per lo più innamorata di lui, la gelosia forse mi avrebbe logorata.

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