Sorelle stelle

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Ril'si evitò una vecchia insegna luminosa caduta a terra, raggiungendo il punto dove un tempo c'era stata l'ampia vetrata sulla città. Suo fratello Kel'ril entrò nella sala d'aspetto principale della monorotaia. Era andata distrutta tempo prima della loro partenza e del loro ritorno, dall'incuria e dalla corruzione dei burocrati, perciò erano piuttosto felici di starci dentro.

Ora che le finestre della stanza erano state infrante dal tempo, il vento fresco della notte che sparpagliava i pensieri portava loro il silenzio dei palazzi. Quella sul fondo della valle ai loro piedi non era altro che uno dei tanti insediamenti dove gli umani avevano trovato modo di sviluppare la loro cultura fino a definirsi civili, poi a criticarsi, e poi ad ammettere si essere solo a una stazione sulla grande monorotaia della storia.

«Beh... da qui si vede bene.» sospirò lui, Kel'ril, cercando di prendere la mano della sorella.

«Kelly, sta zitto.» rispose lei con un tremore di labbra.

La città di C'isech, anche dopo tutti quegli anni, restava illuminata dai suoi più grandi orgogli. Le stelle, alte quanto i suoi telescopi potevano arrivare, proiettavano una cascata di luce azzurrina sugli scheletri degli edifici. Le spore, basse quanto i ricercatori dovevano chinarsi per scoprire nuovi germogli, rilasciavano un'aura cerulea nell'etere.

«Ril-» tentò di nuovo lui, ma lei si morse le labbra. Nessuno doveva parlare, per non infrangere quella barriera zaffiro che separava la sua calma dalla verità.

Non doveva lei, che aveva scelto di essere un'amata e di farsi amare quanto una sorella minore potesse mai desiderare. Si era sciacquata via la sua identità di persona, per riporre il suo cuore solo in ardui obiettivi che lui sarebbe stato lieto di gratificare.

E non doveva lui, per non farla soffrire.

Perché lì non c'era niente che potessero fare.

Ril'si andò a riposarsi su un vetusto sedile in plastica colorata, parzialmente avvolto da un'arborea vita fedele e meschina. Si punse un dito con le foglie scure e affilate, ma il desiderato sangue non scorse.

Kel'ril tornò a posare gli occhi sulla valle, massaggiandosi una spalla. Il vento sussurrava fra le finestre vuote. C'era qualcuno, il destino, forse la vita, a scorrere come se niente fosse lungo la monorotaia della vita. Avevano compiuto il volere del fato.

Un rumore metallico lo costrinse a voltarsi. Sua sorella aveva disarcionato un palo con un cartello dal pavimento, più veloce di quanto sarebbe stato lui a fermarla, lei se lo dieta sulla fronte. L'acciaio si flesse in una forma che non aveva niente di artistico, la sua pelle non si fece nulla.

«Perché noi?»

«Rilly.»

«Sta zitto.» gridò, deglutendo il suo peccato d'identità.

Lasciò cadere il metallo e tornò anche lei a quell'ammaliante natura morta, bella, per la sua meschina creatività, e orrenda, per il suo cuore che non poteva adattarsi alla malvagità della sua mente.

La vita, lo spettro fra i giocattoli addormentati, non aveva portato la morte nel mondo. Lo aveva fatto qualcun altro, ma non sapeva chi. Per tre anni aveva saputo solo che il mondo, e quanto questo fosse vasto orizzontalmente nessuno di C'isech non lo aveva mai scopeto, era stato attraversato da una pestilenza. I governi cadevano, la gente bruciava i cadaveri nei cassonetti, ma il decreto di chiusura totale del sindaco continuava proteggerli.

Nessuno aveva sorriso quando le notizie avevano smesso di arrivare. La popolazione aveva iniziato a sentirsi affine alla splendente solitudine delle stelle. Magnifiche, speciali, uniche nel loro dono. Solo, che quello degli astri consisteva nel bruciare idrogeno, e quello dei superstiti di C'isech era la vita umana. Eccoci, sfarfallavano le loro menti per non affondare nell'oblio dello spazio, i veri figli di Dio. Pochi, piccoli, come una famiglia. Unici, speciali. Soli, al freddo.

"Non tutti sono disposti a seguire il corso della vita", era stato detto a Ril'si, ma lei sospettava che fosse proprio il nucleo della vita armasi, con sassi, archi, baionette o antibiotici, per mangiare altra vita e perdurare. Quando la ricca dottoressa era arrivata col suo casco e il suo get nella loro piccola casa, sapeva che chiunque l'avesse seguita sarebbe sopravvissuto.

Attorcigliò con un dito lo stelo di una pianta, una bella di notte, fiore simbolo della città. Particelle di energia verdastra volarono dalla sua anima senziente a quella vegetativa della sua creazione. La scosse. Spore blu si liberarono nell'aria. Questo dono aveva voluto lasciare alla sua prima partenza: una città protetta dai suoi poteri, da rami che producevano stelle.

«Dobbiamo pensare al bene che possiamo fare.» ripeté suo fratello, adesso come allora.

Andarono con la dottoressa, che aveva un laboratorio lontano, nel mondo, pieno di provette e di speranza. C'erano, alla fine, dei sopravvissuti, dei fratelli. Restarono lì per anni, felici delle razioni di pane e acqua per portare vita nel mondo.

Si rialzò e accettò l'abbraccio di Kelly. Un get argentato stava forando la nuvola abbarbicatasi attorno alla catena montuosa che abbracciava C'isech. Volava lì, dove i loro chip le dicevano che fossero.

«Dobbiamo pensare al bene che lei può fare con noi.» sospirò, e suo fratello capì che la speranza l'aveva lasciata.

Ma come biasimarla? Ora che la dottoressa le aveva aperto gli occhi sull'ingenuità della vita e le fragilità dell'umana specie, l'aver sterminato per errore gli ultimi figli di Dio l'aveva lasciata peggio di un cadavere. Ma come poteva lei immaginare, fragile e ingenua, quali cicloni le sue modifiche allo spirito della vita avrebbero portato? Piccole scintille blu, come tante stelle, per sentire i propri fratelli celesti più vicini, fino a raggiungerli, intossicati dal veleno delle spore.

I racconti oltre lo specchioWhere stories live. Discover now