(3) Trauma e felicità

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Neanche il tempo di mettersi al riparo, e la granata esplose.

Quella che allora era conosciuta come la maggiore Lafisse incontrò a mezz'aria lo sguardo di un suo subordinato. Entrambi affondarono nel fango della trincea per cinque centimetri abbondanti, con le mani sopra l'elmetto e i nervi irrigiditi nelle gambe. Non sentivano dolore, ma percepivano i geloni delle ore prima dell'alba spezzargli le unghie. Erano interi, quel salto gli aveva salvato la vita.

Attesero mentre un'ufficiale cercava di riorganizzare i ranghi con i sopravvissuti. Il soldato semplice si rimise in piedi.

«Ti rilassi nei fanghi, eh? Vuole anche un massaggio, Berrel?» lo schernì la sua superiore ripulendosi il volto da sangue e permafrost sciolto.

«Ogni tanto una vacanza bisogna prendersela, signora.»

Un'altra esplosione face rannicchiare tutti come pulcini, come convinti che, se si fossero compressi abbastanza, sarebbe riusciti a rientrare nel ventre della Madre Terra senza soffrire troppo. L'ufficiale che prima urlava cadde a terra.

«Senta... Maggiore...» sospirò Berrel aggiustandosi la divisa marrone. «Pensa che avendo a disposizione un tempo infinito, si possa raggiungere la felicità?»

Lei abbracciò il fucile e lo invitò a seguirla. «Penso che con una quantità di anni tali ci si possa dimenticare tutto, anche questa guerra.»

Così, come gli ordigni a frammentazione degli zaristi filtravano i soldati che dovevano morire, lei selezionò quelli che l'avrebbero aiutata. Superarono le retrovie e si lanciarono nel bosco, dove le scariche delle mitragliatrici erano attutite dalle fronde.

«Devono avere un artefatto magico. Ieri è piovuta melassa, e qualche ora fa un carro blindato si è allontanato dal loro fronte per il valico a nord. Devono averlo portato via.»

Fecero il giro largo, e persero due disertori per i traumi del gelo, ma raggiunsero il versante opposto in tempo per vedere il convoglio passare sotto di loro. Piazzarono due chili di esplosivo dove il terriccio era più morbido. Alla detonazione qualche quintale di roccia bloccò la strada, non restava altro che un gruppo di zaristi a frapporsi.

Morti quelli non restavano che Lario e Rubio. Il primo le gridò a squarcia cola di fermarsi, ma l'artefatto era rimasto danneggiato nel crollo, togliendo il tempo alle parole. Il secondo le puntò contro il fucile, ma tanto ci sarebbero stati i suoi alleati a fermarlo.

«La prego! Si fermi!»

«E fare la fine del topo?» rispose lei allo stesso tono. «Noi celo meritiamo. Anzi, siamo gli unici ad averne diritto! Se conquistiamo la miniera, chi credi se li prenderà? Chi credi diventerà immortale? Qui ci spariamo da trenta mesi. Metà dei miei uomini sono morti congelati, e voi due farete la stessa fine se non vi deciderete a fuggire. Lasciami almeno salvare i sottoposti che mi restano.»

L'artefatto scricchiolò. Il suo cuore centrale, una specie di palla di vetro piena di un liquido rossastro, era attraversato da una crepa. Le nuvole si fecero scure, come se volessero piangere di nuovo melassa.

«Abbiamo diritto a una vita felice. Noi che moriamo nel fango, all'esistenza più bella di chiunque altro!»

«Come vuole.» Rubio caricò il colpo e puntò alla sua fronte.

La maggiore impugnò una delle maniglie dorate che circondavano il nucleo sfrigolante. Una scarica di energia le anestetizzò il braccio. Un urlo di dolore le tappò la gola. In uno sforzo titanico, lanciò l'artefatto contro i soldati.

Il proiettile uscì dalla canna e spaccò l'involucro trasparente. Il cielo si contrasse, riversando la sua ira in un fulmine che investì il gruppo.

Eventi semplici, conversazioni da giorni qualsiasi possono essere le pietre miliari che biforcano il tracciato della vite. Durante la guerra, gli artefatti decisero chi doveva essere immortale, e chi vendicare Lafisse. Chi doveva essere un animale, e chi un bambino. Chi doveva ricordare il passato, e chi ricevere il più grande dono per un veterano: l'oblio.

La piccola Lafe raggiunse il limitare del bosco, mano nella mano col tenero Bel. Due bambini che non ne avevano voluto sapere di crescere, ma che il villaggio aveva accolto senza farsi troppi problemi. Per i sudditi dello Zar, un incidente con gli artefatti non nera niente di così alieno.

«E siamo di nuovo qui.» si lagnò Bel. «E di nuovo tu mi dirai:»

«Questo posto l'ho già visto! Ma non me lo ricordo!»

«Sì, la settimana scorsa.»

«No! No!» negò lei pestando le scarpette nel fango. «Lo conosco da prima, da rima che ci adottassero.»

Lui decise che non fosse importante, e si concentrò sulla caccola che aveva estratto.

«Guarda.» lo incoraggiò. «Lì dove il sole sta tramontando, c'è il castello dello Zar. E qui, lo vedi il fiume? Un tempo era congelato, e tante piccole persone vestite di marrone lo attraversavano. Lo vedi il versante? Lì, quel lato storto. Lì c'e stata una frana.»

«Per forza!»

«Ma no, c'è stata perché l'ho voluta io. In un sogno. E vedi lì, quella città? Prima non c'era, perché la gente moriva in troppa perché servissero nuove case.»

«Certo, certo.» ridacchiò Bel, prima di sbaffarsi la caccola. «E poi cos'altro?»

«E poi... Vedi dove volano quegli uccelli? Ecco, lì pioveva melassa bollente!» Lafe non rise, un vento tagliente le graffiò gli occhi. «Bel, la melassa mi è sempre piaciuta, vero?»

«Sì?» azzardò lui, tossicchiando per il sapore amaro del suo prodotto.

«Allora perché sto piangendo?»

I racconti oltre lo specchioWhere stories live. Discover now