(2) Trauma e felicità

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Arroccata sulla costa all'estremo est del continente, Cisapi non era una città come le altre, anzi, per dirla senza giri di parole, era unica. Elta uscì dalla propria bottega con un filone di pane raffermo sotto al braccio. Si appoggiò al parapetto che correva lungo la stradina lastricata. Davanti a lei spruzzi di nuvole maculavano il cielo dello stesso colore del mare.

Un garrito le fece voltare la testa. Uno stormo di almeno dieci gabbiani color cappuccino la circondò. Lei si voltò incrociando le gambe fasciate da spesse calze per nascondere la pelle scagliosa, tipica dei rapaci. Con i polpastrelli sottrasse qualche tocco al filone e lo lanciò ai visitatori starnazzanti. Gli uccelli erano esseri magnifici, di poche parole, che ripudiavano i lunghi discorsi in nome una realtà fondata su solidi pezzi di mollica.

Elta odiava ogni lettera che fosse di troppo. Queste componevano i discorsi, che lanciavano le persone in guerra, le scomponevano, le riassemblavano con le gambe da avvoltoio, le chiamavano "veterani" e le rinchiudevano a Cisapi. Secondo un discorso del governo di Maressia, l'esistenza di artefatti magici andava tenuta segreta, e di conseguenza, tutti quelli che erano entrati in contatto con essi avevano l'ordine di andare in vacanza in un villaggetto costiero dell'ovest.

Lanciò l'ultimo tozzo di crosta sul lastricato. Un gabbiano color argilla lo catturò e volò via, lasciando spazio al ragazzino che arrancava sul lastricato. I suoi capelli castani venivano ripetutamente sbattuti qua e là dal vento marino, ma non sembrava infastidito.

«Ciao Elta.»

«Ciao Lario.»

Lui sorrise e si grattò gli occhi frustati dalla salsedine. Quell'uomo di pianura non sarebbe mai riuscito ad ambientarsi, anche dopo trent'anni.

«Oggi il cielo è molto bello.»

Lei non rispose.

«Ho portato il pranzo e la cena. Per te solo frutta.»

«Bene. Sai che non mi piacciono i prodotti da forno.» concluse lei rientrando nella sua panetteria.

Lario attese un minuto che lei tornasse con l'equipaggiamento, divertendosi a rincorrere i gabbiani. Elta uscì dalla porta finestrata già pronta a incrociare le braccia. Lui arrossì stringendo le bretelle dello zaino.

«Rubio ti sta trasformando in una volpe?» suggerì lei aggiustandosi lo zaino sulle spalle, carico di tutto ciò che un soldato trasformato in ragazzino non poteva portare.

Risalirono i fiumi di pietre fino all'estremo ovest del villaggio, dove nessuno si era spinto a terrazzare il fianco ripido. Elta si sfilò le calze e gli scarponi, la sua pelle di gallina viva era più resistente del cuoio morto di una mucca. Salirono per il pendio, piantando i talloni sulle radici e afferrando gli arbusti con le mani. Il loro obiettivo era superare il confine. Quello dove i bizzarri abitanti di Cisapi tornavano ad essere veterani di guerra vissuti decenni prima.

Raggiunsero la cresta a mezzogiorno. Si accamparono finché il sole non fu alto sulle loro teste, poi ripartirono. Elta guidava la spedizione. "Almeno sapessi qualcosa di più su questi artefatti magici", si disse "e invece no. Viviamo in un mondo dove gli incantamenti esistono solo nelle favole e fra le steppe dello Zar Etzalij Inirkano. Ah, poteva andare peggio: poteva avere un nome più lungo."

Scesero un dolce pendio di cinquecento metri, poi i loro piedi toccarono un solido altopiano di terra brulla ed erba paglierina. Inconsciamente, si fecero più vicini. La prima cicatrice, quella che attraversava il monte Ecclitto, arrivò appena un'oretta più tardi. Un lungo squarcio nella roccia marmorea traboccava di sangue suino, ancora fresco, ancora limpido da specchiarcisi. Da lì, da un ponticello di rocce ribaltate, molte altre ferite della terra proposero la loro storia.

Al tramonto, Elta fissò la sedia da campo. Lario estrasse una lanterna a olio dallo zaino della donna, sfilò uno dei cilindri nella sua base, lo riempì di carburante e lo avvitò nel suo loculo. Avanti. Indietro. Avanti, ma stridendo. Indietro, ma non completamente. Avanti. Incastrato di nuovo. Il braccio di Lario ebbe uno spasmo, sollevò il cilindrò e lo lanciò sulle rocce.

Elta non fece in tempo a voltarsi, che lui lo aveva già recuperato.

«Sei ok?»

«Sì.» ansimò lui.

E lei riprese a montare il tessuto verderame, e il tramonto incendiò le montagne. Prima, ovviamente, innescò le nuvole. Fari abbastanza potenti da rischiarare le infrastrutture delle capitali, ancora non li avevano inventati. Prima, Elta girava una manopola sulla console del proprio aeroplano, rovesciando una spuma bianca per cento metri, poi, con un fiammifero, la incendiava. E il bombardamento iniziava.

Poi le rocce, gli alberi, gli uccelli prendevano fuoco. Senza parlare.

«Se dopo avevano ancora la forza di parlare, non dico gridare, il grido te lo aspetti, dico parlare. Poi, era ancora peggio.»

Chiuse gli occhi. Il vento portò a loro ceneri e foglie. I monticcioli sulla costa ad est erano disabitati proprio per il forte vento che tirava, e questo li aveva resi un campo di battaglia perfetto per la sperimentazione degli artefatti magici. Sangue di porco, colate di petrolio, soldati trasformati in gabbiani. In sere come quelle, migliaia di persone si recavano in quel luogo alla ricerca di qualcosa che bruciasse. Il sole, il nemico, il bosco.

Avvicinò delle sterpaglie e accese un fuoco. Su una striscia di carta scrisse il nome di molti suoi compagni d'arme, ora avvolti in un piumaggio cappuccino. Poi lì gettò fra le fiamme, sperando di bruciarne il ricordo.

«Lo Zar Etzalij Inirkano è molto malato. Parto per Ksarraj. Voglio vederlo prima che muoia.»

I racconti oltre lo specchioWhere stories live. Discover now