Capitolo 5

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Mi paralizzo all'istante non appena vedo quella foto, il sangue mi si gela nelle vene.
"Alicia Sierra?" il poliziotto che tiene in mano lo scatto sbiadito mi guarda, ma nessuna parola esce dalla mia bocca.
"Possiamo entrare e sederci un attimo?" domanda l'altro, Raquel annuisce e li fa accomodare sul divano. Vedo i vetri del bicchiere che ho sentito cadere giacere sul pavimento e penso che quei frammenti sono l'esatta trasposizione del mio cuore in questo momento. L'ho sentito sgretolarsi dentro di me, mi manca l'aria, non riesco a respirare. Cammino verso di loro raggiungendoli sul divano. Mi siedo accanto a Raquel.
"Perché avete quella foto? Dove l'avete presa?" chiedo io trovando il coraggio di mettere insieme qualche parola.
"Era in uno dei libri di sua sorella, ce l'ha data una compagna di cella, pare che fosse l'unica a sapere della sua esistenza, signora Sierra" mi dice l'agente Palacios, lo riconosco ora, è spesso all'ingresso del carcere quando andiamo a trovare la banda.
"Mia sorella è morta quando avevo otto anni" rispondo io.
"No signora, sua sorella è viva, è detenuta a Cruz del Norte da qualche tempo, prima invece era nel carcere di Cruz del Sur" si intromette l'altro.
"No, mia sorella è morta due anni dopo la mia adozione" continuo io.
"Alicia, perché non mi hai mai parlato di lei?" mi chiede Raquel posandomi una mano sul ginocchio, istintivamente mi ritraggo.
"Perché è morta quando avevo otto anni" sibilo fra i denti. Me lo ricordo perfettamente il giorno in cui mi hanno adottata e ricordo ancora meglio il giorno in cui ho saputo che la mia sorellina non c'era più.
"Non è così signora Sierra, sua sorella è viva, ma è in gravi condizioni" continua Palacios.
"Cazzate, non è lei. Ho visto il suo certificato di morte e la sua tomba, l'ho pianta per anni e ho provato un senso di colpa smisurato ogni giorno della mia vita. Mia sorella è morta quando avevo otto anni e questa non vi appartiene" dico io ringhiando e strappando di mano la piccola fotografia che ritrae me e lei. Non ho mai avuto qualcosa che mi ricordasse di lei, quando mi hanno adottata ho perso tutto, tempo dopo la famiglia che mi ha presa mi ha promesso che avrebbero adottato anche lei, successivamente mi hanno raccontato che è morta avvelenata e che quindi non c'era più nulla da fare. Da lì sono andata avanti, ho provato a dimenticarla senza riuscirci, ho provato a dimenticare come urlava il mio nome quando mi hanno portata via per l'adozione. Non ho mai scordato le sue grida disumane, ricordo come scalciava e si divincolava quando nostra madre la stringeva, ricordo tutto anche se vorrei non farlo.
"Che cosa è accaduto? Perché lei crede che sua sorella sia morta?" insiste l'agente. Io trattengo le lacrime e lo guardo incendiandolo con gli occhi.
"LEI. È. MORTA." scandisco le parole, ognuna è un pugno nello stomaco.
"Alicia, cosa è successo?" mi chiede mia moglie, la guardo, il suo sguardo incontra il mio, non c'è rabbia, solo bisogno di capire. E ha ragione, è giusto che io motivi tutto questo anche se il ricordo è persino più doloroso del momento in cui è accaduto. Devo farlo, lo devo a Raquel e anche a questi due agenti, così che se ne vadano e mi lascino tornare alla mia vita.
"Vale... - prendo un respiro e inizio a parlare – Siamo nate in Marocco, in un paese molto povero a qualche chilometro da Rabat. – non appena pronuncio il nome di questa città Raquel, con uno scatto, punta i suoi occhi nei miei e io so perfettamente a che cosa sta pensando, ma la ignoro – La nostra famiglia era povera, nostro padre era un ubriacone e nostra madre non era esattamente tagliata per ricoprire quel ruolo. Mia sorella aveva poco più di un anno in meno di me. Le volevo un bene dell'anima, era la mia migliore amica. Le ho promesso che ce ne saremmo andate da lì, che saremmo scappate lontano non appena avessimo trovato l'occasione per farlo. Un giorno però nostro padre, che nonostante bevesse ci ha sempre amate immensamente, è morto. È finito in mezzo a una rissa e l'hanno accoltellato. Lui era l'unico a volerci bene ed era anche l'unico che portava qualche soldo a casa. Ben presto siamo rimaste senza cibo e senza un tetto sopra la testa. Abbiamo vissuto per mesi nel fienile dei nostri vicini di casa, finchè un pomeriggio nostra madre ci ha mandate al mercato, io avevo sei anni, mia sorella quasi cinque. Una coppia di turisti spagnoli ci ha viste camminare da sole con addosso qualche straccio e ci ha seguite. Erano sposati, ma avevano appena saputo di non poter avere figli. Hanno parlato con mia madre, le hanno proposto di adottare una di noi per darle un futuro migliore, ma a mia madre questo non interessava, la sola cosa che voleva erano i soldi e quei ragazzi ne avevano tanti, veramente. Disse loro che se avessero portato via una di noi lei avrebbe dovuto poter mantenere l'altra, chiese loro dei soldi e loro accettarono. Loro volevano me. Sono araba ma sono nata con la pelle chiara, le lentiggini e i capelli rosso fuoco, proprio come la ragazza che voleva adottarmi. Potevo facilmente essere scambiata per un'europea. E infatti così fu. Promisero tanti soldi a mia madre, il giorno dopo andammo a firmare dei documenti e mi portarono via con loro dopo aver consegnato a mia madre cinquemila euro, questo valevo per lei. Mi hanno comprata come se io fossi un pezzo di carne e mi hanno separata da mia sorella. Quando mi hanno caricata sulla loro macchina le ho giurato che sarei tornata a prenderla, ci ho provato davvero. Una volta arrivati in aeroporto sono sgattaiolata dietro a una valigia e sono scappata, ho camminato per un giorno intero e sono tornata da lei. Ma lei non era più lì. L'ho cercata ovunque, ma non c'era. C'era solo mia madre. Ricordo che le chiesi dove fosse la mia sorellina e lei mi rispose che era andata al mercato, ma io non ci credevo. Ho scoperto anni dopo che è stata venduta a un uomo che, non appena raggiunta l'età di undici anni, l'avrebbe sposata. I miei genitori mi hanno trovata e mi hanno portata via, ma io ero rabbiosa, irascibile e violenta. Li picchiavo, li mordevo, urlavo loro che li odiavo perché mi avevano separata da lei. Il giorno del mio ottavo compleanno ero con loro da quasi due anni, mio padre si è abbassò sulle ginocchia, mi guardò negli occhi e mi disse che sarebbero tornati a prenderla. Mi lasciarono da una zia che non conoscevo e partirono. Tornarono senza di lei. È stata punta da uno scorpione mentre giocava nella sabbia. È morta. Non mi sono mai perdonata di averla lasciata lì, dovevamo scappare insieme, dovevamo farlo. Non l'ho saputa proteggere. L'unico sollievo che ho provato è stato sapere che non è mai arrivata all'età per il matrimonio. Aveva meno di sette anni, era la mia sorellina. I miei genitori mi hanno concesso di piangerla e di prendere una piccola lapide nel cimitero di Bilbao dove vivevamo all'epoca, lì sono andata a parlare con mia sorella ogni giorno della mia vita fino a quando, all'età di dodici anni, ci siamo trasferiti a Pamplona. Non ci sono mai più stata. Mia sorella è morta in Marocco all'età di quasi sette anni, io ne avevo otto. Quelle bambine siamo noi, ma la persona di cui mi parlate non è lei." concludo io sentendo tutto quello che ho sentito allora.
"Alicia..." Raquel ha gli occhi lucidi.
"Questo è il motivo per cui non te ne ho mai parlato, è morta, è inutile versare lacrime. Ho già pianto abbastanza io in passato" sollevo le spalle e mi alzo raggiungendo il piccolo ripostiglio da cui estraggo la scopa per raccogliere i vetri. Non parlavo di lei da anni, nessuno sa che avevo una sorella, nemmeno German. Non sono molte le persone che sanno della mia adozione, Raquel è una delle poche, lei sa anche che ho odiato i miei genitori adottivi, sa che mi hanno sempre fatta sentire come un trofeo da esibire e che non erano per nulla affettuosi, crede che li odiassi per questo, ma io li odiavo per avermi portata via.
"Signora Sierra, lei aveva un altro nome prima, giusto?" mi chiede Palacios, evidentemente sanno anche questo di me.
"Sì, il mio nome era Amira, me lo hanno cambiato i miei genitori quando siamo arrivati qui, dicevano che era troppo arabo" dico io, amavo il mio nome e amavo le mie origini arabe, ma con il tempo me ne sono quasi dimenticata.
"Amira è un nome stupendo" afferma Raquel.
"Non esiste più quella persona, ora se mi scusate vorrei andare dalle mie figlie" dico io voltandomi di spalle e camminando verso il corridoio.
"Alicia, è uguale a te ma con i colori di Victoria, guardala almeno per un attimo, ha i capelli neri come l'ebano e gli occhi verdi" dice Raquel e io mi pietrifico. Sento di aver perso il controllo del mio corpo perché, senza rendermene conto, mi sto voltando e sto camminando verso la nuova foto che hanno estratto gli agenti, quella in cui è ritratta una donna adulta che mi assomiglia terribilmente tanto. E assomiglia a mia sorella.
"Si chiama Zulema, ha 37 anni, è nata a Rabat il 14 febbraio del 1985. È reclusa nel carcere di Cruz del Sur dopo essere stata allontanata da altre undici strutture penitenziarie di massima sicurezza. È condannata all'ergastolo per omicidio di due persone: Farah Amin e Tariq Abeth, rispettivamente sua madre e l'uomo che ha sposato quando aveva undici anni. Ha avuto una figlia, Fatima Amin, le è stata portata via appena nata dalla nonna che l'ha cresciuta fino a che non è stata uccisa, la bambina aveva soli sei anni all'epoca, Zulema ne aveva diciotto. Da quel giorno Fatima ha cambiato diverse famiglie affidatarie e orfanatrofi fino a che non è stata arrestata per rapina, è morta a diciannove anni a causa di una detenuta che l'ha fatta cadere dal terzo piano delle celle. Questa stessa detenuta ha accoltellato Zulema ventisette volte con uno spazzolino da denti intagliato otto giorni fa. Ora si trova in terapia intensiva nell'ospedale di Madrid, quello che c'è qui vicino. Sul fascicolo del carcere di Zulema c'era il suo nome come contatto di emergenza, o meglio il suo vecchio nome grazie a cui siamo risaliti a lei." Palacios parla senza darmi il tempo di interromperlo, mi vomita addosso tutta una serie di informazioni che io incasso collegando i pezzi uno a uno nella mia testa.
"Non volevano adottarla, non volevano adottarla perché si vedeva che era araba e loro volevano una figlia che invece a prima vista potesse sembrare biologicamente loro, per questo mi hanno cambiato nome e mi hanno sempre impedito di avere contatti con mia sorella. Non sono mai andati a cercarla, non hanno mai chiesto dove fosse. Hanno finto la sua morte per farmi andare avanti. Lei è viva" dico io.
"Sulla riga dei contatti d'emergenza c'era scritto Amira Zahir con una nota che diceva di contattarla solo nel caso ci fosse pericolo di vita, immagino che anche sua sorella non abbia mai saputo nulla di lei, non sa nemmeno che lei ha cambiato nome" afferma l'agente accanto a Palacios che dice di chiamarsi Martinez. Devo dire che brilla di intelligenza e tatto.
"Zulema è viva...devo vederla" affermo scattando in piedi. Chiamo la babysitter e le chiedo di correre qui, fortunatamente abita solo tre case più in là quindi in cinque minuti suona alla nostra porta, le apro e non le dico assolutamente nulla se non che non so quando torneremo, lei annuisce e io esco di casa seguita da mia moglie e dagli agenti che scortano la nostra auto a sirene spiegate. Quando arriviamo di fronte all'ospedale il mio corpo si irrigidisce, raccolgo il coraggio e scendo dalla macchina respirando rapidamente. Le dita di Raquel scivolano fra le mie incastrandosi alla perfezione. Non le ho dovuto chiedere di venire con me, sapeva che ne avevo bisogno. Non è arrabbiata, so che ha capito perfettamente il motivo per cui non ho mai parlato di Zulema.
"Prego, seguite quel corridoio, vi porterà alla terapia intensiva" ci dice Palacios e così facciamo. La porta sembra allontanarsi a ogni passo, mi sento risucchiata dal pavimento e mi sembra quasi impossibile riuscire a camminare, ma piano piano succede e senza accorgermene sono di fronte a quella porta scorrevole.
"Sto cercando Zulema Zahir" dico all'infermiere che sta dietro al banco di fronte all'ingresso.
"Lei è...?" domanda lui.
"Sono sua sorella" rispondo io trattenendo il respiro. Sono trentuno anni che non mi sento la sorella di qualcuno e una parte di me mi dice di non crederci, mi urla di svegliarmi da questo che è un sogno, ma un incubo allo stesso tempo.
"Oh quindi lei è Amira Zahir!" esclama lui.
"No, sono Alicia Sierra, ma prima di essere adottata quello era il mio nome. Ora posso vedere Zulema o devo tirare fuori il distintivo? No perché oltre ad essere sua sorella, sono anche l'ispettore di polizia a capo del commissariato di questo quartiere" ringhio.
"Oltre la porta, la prima stanza a destra. Ci sono degli agenti di polizia, ma vi faranno passare" sussurra lui. Ci avviciniamo alla porta e dopo aver indossato i camici e raccolto i capelli, entriamo.
"Ispettore Sierra, mi dispiace" abbassa lo sguardo Hortez quando mi vede.
"Voglio questo spazio sgombro, ora ci sono io, vi voglio fuori da questa porta" ringhio cacciando tutti. In sei a sorvegliare la porta di una persona che sta morendo, ridicoli.
Raquel posa la mano sulla maniglia e mi guarda cercando un consenso che, con un cenno del capo, non tarda ad arrivare. La spalanca e nel letto, attaccata a mille tubi, una figura esile con i capelli neri come la pece, una lunga frangia che le si apre per la posizione sdraiata, una minuscola conca sul naso e la pelle olivastra, fa capolino. Sono io, mi sembra di vedere me stessa in quel letto. Il mio sguardo si posa sul suo polso, scorgo un tatuaggio con una piccola A. Gli occhi finalmente mi si riempiono di lacrime e sussulto realizzando che l'ho ritrovata, ma sto per perderla di nuovo.
Improvvisamente il mio stomaco si contorce proprio come quella prima volta a Cruz del Norte, mi manca l'aria e mi sento svenire.
"Zule" sussurro prima di cadere a terra e perdere conoscenza. L'ultima cosa che vedo è il suo volto da bambina, è viva, la mia sorellina è viva.

* spazio autrice *

Non riuscivo ad aspettare 🙈 anche se in realtà non so bene se andrò avanti o meno. Mi sta passando la fantasia specialmente per certe dinamiche che vedo qui sopra.

- Elle 🦂

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