Life isn't easy

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Paulo

"Mi ha detto che le fa molto piacere che io stia bene, era preoccupata quando ha saputo che mi sarei trasferita in una nuova città, credeva potesse avere un impatto negativo sul mio umore, invece mi ha trovata migliorata, addirittura più serena"
Da quando ero passato a prenderla non smetteva di raccontarmi quello che le avevano detto.
Non ero affetto certo che si potesse parlare con cotanta tranquillità delle proprie sedute di terapia, ma il fatto che avesse ripreso a confidarsi con me mi rendeva felice, iniziavo a vedere la luce infondo al tunnel, aveva riassunto le sembianze della mia Eva.
Nonostante ci fossimo riavvicinati da circa un anno, a volte mi sembrava così diversa, come se avesse perso le sue peculiarità. Non ero stato abbastanza intelligente da capire che, in realtà, nessuno dei due si fidasse dell'altro. In particolare, non avevo compreso che ciò fosse del tutto normale, sei anni non erano poco tempo, in sei anni le persone si dimenticano, si annullano.
Avevamo fatto l'errore di aspettarci che fossimo gli stessi ragazzi di una volta, come se non fosse passato nemmeno un giorno da quando aveva riaperto gli occhi in quel letto di ospedale, ed ero lì a tenerle la mano.
Non potevo sapere cosa pensò lei quando c'incontrammo in quel parco, ma col senno di poi dovevo ammettere che ciò che io avevo fatto era stato illudermi che potessimo far finta di nulla, abbracciarci, tornare a casa nostra e fare l'amore, come se fossimo stati distanti solo qualche ora. Ma casa nostra non c'era più, e l'idea di un "noi" aveva smesso di esistere.
"Ora sono agitata perché stai guidando la mia auto"
Ridacchiai. Ero riuscito ad impossessarmene unicamente perché mi aveva dato il permesso di usarla per fare un giro, mentre lei sarebbe stata occupata in clinica.
Non mi avrebbe scocciato aspettarla per un'ora e mezzo o due lì fuori, avrei trovato qualcosa da fare per passare il tempo, ma mi aveva scongiurato di andare altrove, altrimenti non avrebbe smesso di pensarmi e si sarebbe distratta.
Allora ne avevo approfittato per fare un saluto a Bonni, che abitava nei paraggi. Fu davvero bello incontrarlo, ma allo stesso tempo tanto triste. Non ero ancora riuscito a stringere dei solidi rapporti d'amicizia nella capitale, e quelli con i ragazzi di Torino iniziavano a perdersi.
Per fortuna c'era Alvaro, che a Madrid viveva una situazione simile alla mia, fatta eccezione per alcuni compagni. Ci sentivamo tutti i giorni, ci raccontavamo le nostre giornate, e mi aveva detto che Eva ed Alice non avevamo mai smesso di frequentarsi. A volte era addirittura lui, quello tra i due, che conosceva qualcosa in più sulla mia Nena, era proprio sua moglie a riferirgli ciò che lei le diceva. In segno di rispetto nei suoi confronti però, non mi rivelava mai più di quanto già non sapessi.
"Stai tranquilla, dopo farò guidare te"
La guardai per un attimo, premurandomi di non distogliere l'attenzione dalla strada, mentre osservava lo schermo del cellulare. Lo voltò nella mia direzione: Oriana le aveva inviato una foto di Paulino che giocava con la plastilina.
"Hai visto? Ha fatto mettere Kaia e Bowen di fronte a sé come due modelli, e sta cercando di riprodurli"
"Quei due lo staranno facendo dannare, non stanno fermi un attimo, a meno che non siano davvero stanchi"
"Ama profondamente i tuoi cani, abbiamo decine di opere d'arte su di loro a casa, ne è ossessionato"
Le sue labbra si tesero verso l'alto, potei avvertire gran parte delle emozioni che provava in quel momento. Il petto mi si strinse, e il cuore accelerò inaspettatamente, gli volevo davvero un gran bene, lei e il piccolo erano le mie ancore.
Ci fu silenzio per la maggior parte del tragitto, lo stereo era spento, avevamo deciso di evitare la musica dato l'avvenimento. Si udivano soltanto i nostri respiri, talvolta affannati.
Furono innumerevoli le volte in cui mi chiesi se stessi facendo la cosa giusta, se volessi realmente vedere con i miei occhi la sua tomba, e non seppi mai darmi una risposta.
"Paulo, non so se sarò capace di scendere una volta arrivati" esordì, quando oramai mancavano pochi metri alla destinazione.
"Non voglio obbligarti. Scusami se prima ho esagerato facendoti credere di dovermelo, in realtà non mi devi niente"
Non ero convinto fino in fondo delle parole che avevo pronunciato, nella mia mente si innescavano strani meccanismi. Avevo mentito spudoratamente dicendole che non mi dovesse niente, in realtà pensavo spesso che qualche sacrificio da parte sua, tenendo in considerazione tutti quelli che avevo compiuto per lei, mi spettasse. Ero ancora arrabbiato per quel che aveva fatto.
Quando la mente mi concedeva degli attimi di ragionevolezza però, mi rendevo conto di non poter chiedere nulla ad una donna che aveva sofferto così tanto.
Nei momenti di egocentrismo dimenticavo volutamente la sua storia: dimenticavo da quale famiglia provenisse, del tentativo di stupro davanti ai miei occhi, di quando mi chiese una lametta per tagliarsi le vene nel mio bagno. Dimenticavo il dolore per l'allontanamento di Jessica, la dipendenza dalle pasticche, le tre volte in cui era andata in overdose, l'ultima volutamente.
Facevo sì che dalla mia mente si allontanassero, insieme ai precedentemente nominati, tutti gli altri avvenimenti che avevano irreparabilmente segnato la sua esistenza, e quando me ne ricordavo mi sentivo una merda.
Mi odiavo per averne parlato con la mia compagna, per averla sputtanata insieme a lei per anni, come meccanismo di difesa per impedirmi di continuare ad amarla. Mi odiavo per averle augurato le cose peggiori, e poi aver pianto una notte intera quando avevo scoperto che suo figlio avesse il cancro.
"Invece sì Paulo, cazzo se te lo devo"
Per i minuti che intercorsero tra il parcheggio e il nostro avviarci verso il guardino cimiteriale, mi domandai cosa le frullasse in testa. Probabilmente si stava autolesionando con pensieri deleteri, e ciò potei dedurlo proprio dalle sue parole, pronunciate un attimo prima.
L'ultima cosa che volevo, perlomeno in quel momento, era che si sentisse in colpa.
Mi ripetei che una volta davanti a mia figlia sarei stato forte, che non dovevo crollare, perché probabilmente non avrebbe voluto che provocassi quell'ennesima sofferenza ad Eva. Invece, quando il mio sguardo si posò su una lapide in marmo bianco, alla quale faceva ombra un albero di glicine, la mia anima si scosse ed iniziai a tremare.
Il colpo di grazia lo diede il nome inciso al di sopra, accanto ad un'immagine di un angelo: Anita D.B.
"Tu l'hai.. l'hai chiamata Anita?" sussurrai.
Mi voltai verso di lei, che era rimasta un passo indietro, e la guardai dritta in faccia, con gli occhi zuppi che non riuscivano a contenere le lacrime.
Annuì, e ci capimmo al volo.
"Ricordo perfettamente la volta in cui mi hai detto che tua nonna Ana veniva chiamata da tutta la famiglia Anita, perché era così che si rivolgevano a lei i suoi genitori da bambina. Eravamo sul balcone e spiavamo nelle case degli altri. È stato il primo nome che mi è venuto in mente quando mi hanno chiesto di compilare i moduli, poi ho cercato il significato su internet.."
Si fermò improvvisamente, iniziò a respirare con fatica, e alzò il capo verso il cielo per trattenere il pianto.
"Eva! Joder!" mi avvicinai per afferrarle il viso, nel tentativo di calmarla.
Si portò una mano al petto, strinse forte gli occhi e cercò di regolarizzare il fiato.
Tra i singhiozzi proseguì il discorso: ".. Anita significa grazia, da intendersi come dono. È stata il nostro dono Paulo, ho pensato che dandole quel nome avrebbe continuato ad esserlo, nonostante sia volata in cielo".
La abbracciai forte, le lasciai più volte dei baci tra i capelli, e il modo in cui si aggrappò alla mia maglietta mi strappò il cuore. Vidi sgretolarsi tutte le nostre difese, e mi sentii in dovere di sorreggerla, perché sapevo che solo in quel modo avrei sorretto anche me stesso.
Pregai, continuando a tenerla tra le mie braccia. Chiesi alla mia abuela e al mio amato papà di tenere la nostra bambina vicino a loro lassù, e di trasmetterle lo stesso amore con cui avevano cresciuto noi, figli e nipoti. Ad Anita invece rivolsi dei pensieri più profondi, la scongiurai di perdonarmi per aver abbandonato la sua mamma quando aveva più bisogno di me, le giurai che mai più avrei commesso un tale errore, che l'avrei sempre tenuta stretta come stavo facendo in quel momento. La mia richiesta, in cambio, fu di proteggere la nostra famiglia, soprattutto il suo fratellino, che sono certo ami alla follia.
Sperai che perdonasse anche Eva, per i gesti folli che si era vista costretta a compiere, perché io non ero stato in grado di farla sentire ascoltata e capita.
Le alzai il mento, il suo viso era sporco di trucco e rossetto sbavato, quando se ne accorse mi fece notare quanto si sentisse un mostro in quelle condizioni.
"Sei bellissima Nena, stiamo esternando le nostre emozioni, ed è perfetto così"
"Sembro un clown"
"I clown sono bellissimi"
Quando ci sentimmo abbastanza pronti, ci sedemmo sulle sedie in legno riservate a chi andava a visitare i propri defunti, che avemmo la premura di spostare vicino a dov'era sepolta nostra figlia.
"Sai perché ho scelto di piantare un glicine?" mi chiese.
Scossi il capo.
"Perché le avevo fatto comprare da Anna, in quanto non potevo lasciare il ricovero, tutine e bavette lilla. Le guardavo sempre e la immaginavo con quelle indosso"
"Le tieni ancora conservate?"
"Sì, le ho usate con Paulino, non me la sentivo di lasciarle prendere polvere"
"Vorrei vederle un giorno"
Posò la testa sulla mia spalla, intrecciò le sue dita alle mie e rispose: "certo".
Le chiesi chi si sarebbe occupato di tenere in ordine la tomba ora che lei era a Roma, mi disse che lo avrebbe fatto la sua migliore amica, che era successo negli anni che andasse lì addirittura più spesso di lei.
Era comprensibile, data la malattia di Paulino che l'aveva tenuta occupata per moltissimo tempo.
"In questi giorni non ho fatto che pensare che non ce l'avrei fatta a superare tutto questo" le confidai con spontaneità.
"Devi essere forte Paulo, la tua compagna ha bisogno di te. Se non ci riesci da solo, possiamo essere forti insieme"
Non le risposi, nonostante avrei voluto rivelarle che di Oriana iniziava ad importarmi sempre meno, ma che allo stesso tempo avevo il terrore di perderla, perché era stata la mia unica certezza negli ultimi anni. Avrei voluto rivelarle che da quando era rientrata nella mia vita, non riuscivo a vedere la mia fidanzata che come una sorella, con la consapevolezza di non volerla perdere per nulla al mondo, e la certezza che se l'avessi lasciata non solo ciò sarebbe successo, ma probabilmente non l'avrei mai più rivista. E per quanto mi costasse ammetterlo, avevo estremo bisogno di entrambe.
Rientrammo in macchina, mi accomodai sul sedile del passeggero e la lasciai mettersi al volante, senza che me lo chiedesse.
"Ori è una ragazza molto fortunata" esclamò di punto in bianco.
"Perché?"
"Perché ha te"
Iniziò a mordicchiarsi le labbra imbarazzata, sapevo quanto fosse difficile per lei ammettere i propri sentimenti, in particolare quando sapeva ci fosse qualcun altro per me.
"Anche tu mi hai"
"Non è la stessa cosa" sussurrò.
Incredibile come dopo anni ci fossimo ritrovati nella stessa identica situazione: lei sola, io fidanzato, innamorati l'uno dell'altra.
"Che merda la vita, eh?" ironizzò.
"È difficile, ma alla fine ne usciremo vittoriosi"
Lo dissi seppur quella volta non ci credessi più di tanto, ero scettico sulla buona riuscita del piano che il destino aveva in programma per noi.
Quel che sapevo per certo, era che il mio di piano concernesse il carpe diem, vivere e cogliere ogni attimo con spensieratezza, ma le pressioni da parte della mia compagna sul matrimonio e sull'avere figli insieme non aiutavano. Ogni singola volta mi trovavo nella condizione di dover tergiversare, per evitare di ferirla. Non potevo dirle chiaramente che non era mia intenzione, che non lo avrei sentito appartenermi, perché essendo stato in passato dall'altra parte sapevo bene a quali conseguenze tali dichiarazioni portassero.
Calmati gli animi, scambiammo quattro chiacchiere: mi informò del fatto che dovesse incontrare Sole, una ragazza di diciannove anni che era diventata sua amica. Mi promise che non avrebbe tardato più di un paio d'ore, all'incirca dalle 13 alle 15, e che poi fino alla partenza del treno alle 17 saremmo stati insieme nella nostra Torino.
"Dove vorresti andare?" domandai.
"Non lo so, a te cosa manca di più di questa città?"
Ci pensai a lungo.
"Mi manca il nostro palazzo" ammisi.
Mi mancavano i nostri momenti lì, le discussioni sul pianerottolo, il sorriso di Adriano ogni volta che varcavamo la soglia dell'ingresso, i baci e le sveltine in ascensore.
"Sei fortunato, ho ancora le chiavi del mio appartamento"
Corrugai la fronte, sperai di aver capito male.
"Intendi quello nel quadrilatero, ovviamente"
"No, intendo quello di via Roma"
Mi si mozzò il respiro. In mattinata mi aveva intimato di evitare quella strada a tutti i costi, per il bene di entrambi, mentre ora ne parlava con estrema nonchalance.
Sapevo non potesse venderlo, perché di fatto era intestato alla sua famiglia e non a lei, ma che conservasse ancora qualcosa..
Non ero voluto tornare lì nemmeno per svuotare la mia vecchia abitazione, avevo mandato un team a recuperare gli scatoloni che avevo preparato per il trasferimento.
Il mio cuore non poteva accettare di dover rivedere il posto in cui era quasi morta.
"Eva, l'ultima volta che siamo stati lì dentro tu eri.. ed io.."
"Io ero in fin di vita e tu mi hai salvato, credo sia finalmente arrivato il momento di parlarne e smettere di fingere che non sia mai accaduto"
"Non lo sto facendo"
"Invece sì, lo stiamo facendo entrambi"
Arrivammo all'entrata del Valentino, in particolare quella tra corso Vittorio Emanuele e corso Massimo d'Azeglio, mi chiese di riportare la sua Yaris a casa, dandomi istruzioni su come posizionarla in garage, poi mi diede appuntamento davanti al negozio di Lego, in quella che è considerata una delle vie principali del centro storico torinese.
Non le rivolsi una parola, tanto che aspettò un paio di minuti prima di scendere, mi domandò se la stessi ascoltando, e quando non ricevette alcuna risposta uscì dall'auto e sbatté lo sportello con forza.
Potei sentirla darmi dello stronzo mentre s'incamminava, sapevo di meritarlo.
Nonostante il risentimento e lo stomaco in subbuglio, feci ciò che mi aveva chiesto. Camminai cercando di coprirmi il più possibile per non essere riconosciuto, e per fortuna ci riuscì bene dato che nessuno mi fermò.
Passai per via XX settembre, evitando le zone più trafficate, e quando arrivai di fronte allo store lei era già lì. Teneva le braccia incrociate e si stringeva il bicipite con una mano, aveva gli occhi oscurati dagli occhiali da sole, che però non riuscirono a mascherare le due o tre lacrime che scesero lungo le sue guance.
La conoscevo troppo bene, era sicura non mi sarei presentato, e stava morendo dentro.
"Nena" la richiamai dall'altro lato della strada.
Liberò finalmente il suo sguardo, aveva le pupille arrossate. Mi si avvicinò con stremante lentezza, "sei qui" disse incredula.
La presi per mano, le feci da scudo per eventuali occhi indiscreti e le domandai se fosse pronta per andare.
Fu strano esser di nuovo insieme su quella strada, chiudendo gli occhi ero di nuovo il ventunenne scalmanato che odiava quel posto, che però era riuscito ad amare alla follia grazie ad una ragazza di vent'anni, più scalmanata di lui.
Passeggiare mano nella mano era una cosa così intima, seppur stessimo per compiere un gesto di grande coraggio per un attimo me ne dimenticai. Fu bello sentirsi al proprio posto nel mondo, e sarebbe stato sciocco non affermare che il mio era indubbiamente al suo fianco.
Il nostro stile non era cambiato affatto, lei era ancora quella dai pantaloni a zampa abbinati ad un crop top stile primi anni 2000, io invece quello che ora definirebbero un maranza, ma pur sempre con un elevato ed indiscusso charme.
Descriverei come straziante il momento in cui entrammo nel plesso e notammo che tutto era diverso, a partire dal portiere finendo con il colore dell'intonaco sulle pareti.
"Da quanto tempo non vieni qui, Eva?"
"L'ultima volta è stato quel giorno, quando mi hanno dimessa avevo già fatto spostare tutto nella nuova mansarda. Tu, invece?"
"Sono stato qui per un altro paio d'anni, insieme ad Oriana, poi abbiamo deciso di stabilirci in villa"
Era stata una scelta sofferta. Mi era stato consigliato in terapia, secondo la mia psicologa era il momento di tagliare i ponti con il passato.
Saliti al nostro piano, mi accorsi immediatamente delle modifiche che i nuovi inquilini avevano apportato al mio appartamento: nuova porta blindata di colore grigio, sostituita a quella medievale beige che avevo deciso di tenere per la sua valenza storica; citofono in argento con telecamera, e infine tappetino in velluto, utile solo per l'apparenza.
"Non hai idea delle volte in cui sono rimasto fermo sulla soglia, ad immaginarti in quell'angolo in cui ti ho trovata pochi giorni dopo essermi trasferito"
Andò proprio lì, e si sedette a terra, con le gambe incrociate.
"Stavo ascoltando gli One Direction quando sei arrivato, ora sono in pausa da più tempo di quanto siano stati nella band"
"Evidentemente non era destino, non credi musicista?" m'inginocchiai.
Sorrise.
"Forse hai ragione, argentino"
Se lo ricordava. Ricordava come ci chiamavamo le prime volte, quando ancora non conoscevamo i nostri nomi.
"Mi hai asciugato le lacrime quel giorno, e da allora non hai mai smesso"
Si portò anche lei sulle ginocchia, mi si avvicinò più di quanto di solito si concedeva. Colsi l'occasione e feci lo stesso, ci ritrovammo con le punte dei nostri nasi che si sfioravano, potevo sentire il suo respiro fondersi con il mio. Eravamo un'unica cosa, fatti della stessa sostanza.
"Dovremmo entrare, prima che si faccia tardi" disse.
Ci sollevammo, e l'aiutai ad inserire la chiave nella serratura. Fu dura, tremavamo entrambi.
Chiudemmo la porta alle nostre spalle, avvolsi le braccia intorno al suo corpo e posai il mento sulla sua clavicola.
Era incredibile come fosse rimasto tutto invariato, ma pieno di polvere. C'era ancora la penna a terra vicino all'ingresso, e più in là posato sul parquet, nel bel mezzo della stanza vuota, un libro aperto.
"Sarà caduto a qualcuno mentre sgombrava la libreria" andò a prenderlo.
Me lo mostrò, sulla copertina si leggeva: "Atti osceni in luogo privato".
"È uno dei miei libri preferiti, ecco che fine aveva fatto! Dovresti leggerlo, Libero mi somiglia molto"
"Libero?"
"Sì, è il nome del protagonista della storia. È un ragazzo che non sa cosa vuole, che combina una marea di casini e vive delle esperienze che lo turbano molto"
Non capii molto bene di cosa stesse parlando, non me ne intendevo, ma la assecondai.
Mi guardò fisso negli occhi, ed esclamò: "io volevo morire, Paulo"
Un brivido mi percosse da capo a piede.
"Lo so, e scusami se non sono stato in grado di lasciare che ciò accadesse"
Il modo in cui mi aveva parlato al suo risveglio mi aveva segnato per sempre, mi portava ancora a chiedermi se valesse di più la sua volontà oppure la mia. La risposta era semplice: certamente la sua, ma sarebbe stato lo stesso dal momento che essa riguardasse il passare a "miglior" vita?
"No, va bene così. Vorrei che smettessi di sentirti in colpa per questo, e dovrei essere io a scusarmi, per averti costretto a tale oscenità. Ti amavo da impazzire, ma la mia mente era malata, e non comprendeva il grande valore di avere una persona come te accanto. So che stiamo soffrendo atrocemente entrambi, e mi piacerebbe che lasciassimo andare via il dolore, che ce ne liberassimo"
"Come potremmo? Non faccio che pensarci"
"Guardiamo a questo posto come quello in cui ci siamo innamorati, ricordiamo le notti passate insieme a coccolarci ingenuamente, le innumerevoli volte in cui le nostre labbra si sono sfiorate, e le altrettante in cui avremmo voluto completarci facendo l'amore, urlando i nostri nomi scossi dal piacere"
A quel punto della conversazione le nostre fronti erano appoggiate l'una all'altra, sapevamo quello che sarebbe successo di lì a poco, e lo volevamo entrambi.
"Per l'ultima volta, Paulo. Usciti di qui torneremo ad essere due migliori amici, mi aiuterai con Paulino ed io continuerò a voler bene ad Oriana come fosse una sorella"
"Per l'ultima volta, Eva. D'accordo"
Non sapevamo come muoverci, ne era passato di tempo, e le mie mani non ricordavano più come accarezzare le sue curve, che erano decisamente cambiate rendendola ancor più bella.
"Ti amo" dicemmo all'unisono, e finalmente la mia lingua s'intrecciò alla sua, riconobbi il suo sapore, il suo bacio caldo ed accogliente.
Era proprio lei, la donna che avevo sposato, e a cui avrei detto di sì davanti ad altri miliardi di altari.

Él 2 ||Paulo DybalaOnde histórias criam vida. Descubra agora