PROLOG

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La ragazza gridò senza usare la voce.

Mille cebrim e nessuno le si attivarono e disattivarono contemporaneamente, un attimo prima udiva, percepiva e vedeva ogni cosa troppo intensamente, l'attimo dopo era sorda e cieca; per un istante era in grado di percepire il pericolo di mille persone che imploravano il suo aiuto dagli angoli più disparati del globo, quello seguente erano tutti lontani, irraggiungibili, soli e persi; prima le sembrò di vedere distintamente i mens raccogliersi in cielo sopra l'Ephia in un grande vortice, e poi non riuscì più nemmeno a percepirli neanche un po'.

Arrancando si aggrappò a un appiglio per non essere trascinata via da un'attrazione potentissima e si voltò a fatica per vedere meglio quale disastro stava avendo luogo. Anche Langy, la ragazza che le aveva provocato la visione, e un altro paio di Ephuri sembravano nella sua stessa situazione, ma di certo non era nulla rispetto a chi invece si trovava all'interno.

Clara udiva le grida e non le udiva, vedeva gli oggetti frammentarsi, ribaltarsi, avvolgersi a spirale verso l'alto, e tra essi c'erano anche delle persone, degli Ephuri come lei. A tratti le pareva che ci fossero un silenzio e una calma inspiegabili, a tratti un caos furente che sradicava i tronchi degli alberi e scindeva gli Ephuri dai loro cebrim, per poi separarli da loro stessi.

Era così che si sentiva Clara: disconnessa, segmentata in centinaia di frammenti del suo essere, e tutto in lei tentava di tirarla verso il vortice, la sua stessa mente lo desiderava, sempre che fosse ancora la sua. Non riusciva nemmeno ad aver paura, a ragionare razionalmente, a pensare o provare qualunque cosa a dir la verità, c'erano solo quelle sensazioni e quelle non-sensazioni fortissime e insistenti.

Quando tutta quell'assurda discordanza sembrò raggiungere il suo apice, ogni cosa si quietò, tutti i frammenti di lei tornarono al loro posto, i cebrim si stabilizzarono, e anche la mente riprese a funzionare a dovere. Sopraggiunse il terrore prima sopito e Clara lasciò la presa sul masso a cui si era aggrappata, rendendosi conto di non essere più attirata verso alcun vortice.

Era finita.

«Che... cosa...» borbottò suo fratello vicino a lei, guardandosi le mani e poi tastandosi il corpo come per verificare di essere ancora tutto intero. Clara non disse niente, si gettò semplicemente in avanti per stringerlo forte a sé in un abbraccio. Aveva avuto tanta paura di perderlo, o di perdere sé stessa, così vedere che stava bene la rassicurò.

Chi, invece, era stato catturato tra le spire del vortice, di certo non stava bene affatto.

Clara udì una voce femminile gridare e vide correre verso quel che rimaneva dell'Ephia la ragazzina dai chiari capelli castani che l'aveva chiamata. Il legame con lei ora si era affievolito, eppure rimaneva sopito, presente e irrisolto dentro di lei, stando a significare che era accaduto.

Era accaduto e Clara non aveva potuto fare niente per impedirlo. Era accaduto e ora sarebbe rimasto a pesarle per sempre nella memoria e a ritornare nei suoi incubi frequenti come il dolore del piccolo Abutres, i Metephri che non aveva salvato alle isole Faroe, e la condanna di Daniel.

«Yordanka!» tentò di fermarla uno degli Ephuri bulgari, ma la ragazzina era già corsa al capezzale di alcuni di quei corpi irriconoscibili che probabilmente erano appartenuti a delle persone che lei conosceva. C'era anche quella strana sensazione di consapevolezza di qualcos'altro che però non riaffiorava.

Quando Yordanka esplose in un grido disperato che si trasformò ben presto in un pianto scosso dai singhiozzi, a Clara presero a bruciare gli occhi e iniziò a respirare in modo affannato.

Non poteva farcela. Non poteva più assistere a quel dolore senza poter fare nulla per fermarlo.

Senza rendersene conto cominciò a retrocedere, ignorando la voce di Langy che la chiamava.

Vedeva solo il suo fallimento, tutta la sofferenza che non era riuscita a impedire.

Inciampò all'indietro e poi si rialzò subito, così da prendere a correre via, nel disperato tentativo di mettere più distanza possibile tra sé e il dolore. Non voleva assistere più a nulla del genere, avrebbe voluto liberarsi di quel cebrim, anzi, di quella condanna, anche subito.

Peccato che non ci fosse modo. Era costretta a dover vedere, o piuttosto a dover vivere sulla sua pelle, ogni volta, angosce che, a prescindere dal suo intervento o meno, si sarebbero ugualmente verificate.

Raggiunti i primi alberi, appoggiò la schiena a un tronco come per non perdere l'equilibrio. Sentiva tutto girare, vorticare come quel disordine che non aveva potuto impedire, faticava a respirare regolarmente e le mani le tremavano.

Finiva sempre così. Quando sperava di riuscire ad aiutare qualcuno, a cambiare davvero qualcosa, la realtà le si abbatteva addosso ricordandole che lei era piccola e inerme, debole e insignificante, una formica che cercava di fermare un gigante. Era riuscita a salvare Daniel, ma poi l'aveva solo condannato a una vita che non meritava. Aveva fomentato in lui false speranze, per cosa? Cosa aveva ottenuto?

Avrebbe potuto tornare indietro, andare da Yordanka e consolarla dicendole che le cose sarebbero migliorate, ma poteva davvero garantire una cosa del genere?

Poteva forse riportare indietro i cari che aveva perso?

(Tratto da Metephro)

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