88 - Tra sogno e realtà

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POV ARIEL

Sono due settimane che lavoro senza sosta in questa clinica. Adoro follemente i miei pazienti e tutto ciò che imparo da loro e per loro. Ma che diavolo, nessuno mi aveva parlato di tredici ore al giorno.

Dopo i primi due giorni di studio e osservazione mi hanno messo sotto come uno schiavo egiziano. Insomma, la mia formazione è una sorta di piramide di Cheope in costruzione.
Mattone, dopo mattone.

Purtroppo, al mio terzo giorno abbiamo avuto una decimazione del personale: un virus gastrointestinale bello forte ha colpito una buona metà del personale. Ad oggi, è rientrato solo uno psicologo.
Così, chi è rimasto, deve coprire i turni di tutti i mancanti.
Purtroppo questo istituto essendo sperimentale non gode di fondi illimitati... per cui si fa come si può.

Ieri ho lavorato quindici ore, oggi sono già a tredici.
Ma va bene: mia madre è qui con me mi dice 'lenticchia, non mollare! Diventa chi vuoi, ora!'. Mio padre, che vado a trovare in ogni momento libero che avanza tra dormire o fare una doccia, mi infonde uno strano coraggio dal suo letto di sonno perenne. Il mio inconscio, sa che se mollassi la presa e lui si risvegliasse con una figlia che non ha combinato poi molto negli anni in cui lui dormiva, non ne sarebbe contento. Per cui non mollo un diavolo di niente, mai.

La stanchezza fisica però, inizia a pesarmi.

La testa inizia a girare leggermente e gli occhi si fanno pesanti. Forse aver appena pranzato non aiuta a rimanere vigili e sull'attenti.
Mi alzo dalla sedia e sollevo il vassoio del pranzo guardando la mia collega di fronte a me che sta ancora finendo il suo tiramisù.
«Ho finito. Vado a riposare due ore nella stanzetta, ok? Poi ti do il cambio, Kika, e riposi anche tu» informo la mia collega. In questi infiniti turni di lavoro ognuno di noi si costringe a ritagliarsi almeno due ore di fila per dormire e riposarsi in una stanzina apposita. Chi arriva prima, prima va a riposare.

Lei annuisce, mentre si stiracchia sulla sedia con la mia stessa stanchezza stampata in volto.
«Ok, Ariel. Riposati. Verso le undici di stasera dovrebbe finalmente tornare Sophia. Ne approfitterei per farti fare un giro approfondito del reparto degli autistici e Asperger, se sei d'accordo. Magari anche conoscere qualche dottore e paziente di quel reparto. Non credo qualcuno abbia avuto il tempo di mostrartelo per bene da quando sei arrivata.»

Ha ragione. Non ho mai visitato il reparto del piano superiore, né conosciuto qualcuno proveniente da là. Ho solo intravisto qualche schiena nel giardino esterni mentre passavo dal corridoio comune che funge da snodo per i vari piani dell'edificio.

Adesso però, considerando il momento pseudo tranquillo visto che i 'miei' pazienti sono tutti impegnati con la ginnastica nella palestra al piano interrato, sto solo pensando di dormire un po'.

Mi trascino con passo stanco giù per le scale e quando dirigo il mio sguardo verso la porta di vetro che da sul giardino, strizzo gli occhi per vederci meglio che posso sembra sembrare una ficcanaso.
Osservo un uomo che spicca su tutti gli altri, tanto è enorme. Sono lontana, per cui non lo vedo bene, ma è chiaro che non è un paziente: è intento a parlare con un dottore, e quelli del reparto autistici/Asperger al momento non parlano apertamente, con tanto di gesti, come fa questo tizio. O almeno, così mi ha detto la caporeparto.

Stringo di più gli occhi per cercare di vedere più nitidamente chi è quel tipo, ma i vetri appannati non lo rendono facile... però...

Quella schiena.

Sembra la sua. È uguale alla sua. È più imponente di come la ricordo...
E, quando il ragazzo gira leggermente il volto verso destra, intravedo guance ombreggiate da un velo di barba. Non lo vedo bene, è comunque sfocato ma, giuro.... Il cuore mi sobbalza nel petto.

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