IV

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  «'cause all I know is a simple name and everything has changed.»  

La rabbia montò dentro di lei non appena furono fuori dall'ospedale.
Ce l'aveva con se stessa per essere andata in quella stupida baita con un ragazzo che credeva l'amasse ma che l'aveva lasciata, e per questo aveva pure subito l'incidente; e ce l'aveva con se stessa per aver dovuto creare quel maledetto blocco che le aveva fatto dimenticare di diciotto anni di vita. Diciotto anni!
Subito dopo la rabbia, montò la tristezza e disperazione. Le veniva ancora da piangere, ma resistette, perché era in macchina con quelle persone che in quel momento proprio non voleva vedere, e che la facevano sentire in colpa per questi pensieri.
Chiuse gli occhi, ma vide solo il buio.
Quando raggiunsero quella che era casa sua, i suoi genitori le sorrisero senza riuscire a dire nulla e le mostrarono la sua camera.
Lasciarono la porta aperta e le dissero che per qualunque cosa si sarebbe trovati al piano inferiore a preparare la cena.
Heather, però, riusciva a sentire le urla disperate di una donna che stava cercando di accettare il fatto che per sua figlia lei fosse un'estranea.
Se non fosse scesa mai più, probabilmente avrebbe fatto un favore e tutti e tre.
Chiuse lentamente la porta e vi si accucciò contro.
Poco dopo, sentì i passi soffocati di suo padre percorrere la moquette delle scale fino a raggiungere la sua stanza. Si alzò appena in tempo prima che l'uomo aprisse la porta e con occhi imploranti ma tono apatico le dicesse che la cena era pronta.
Entrambi per tutta la sera non fecero altro che rivolgerle sorrisi dispiaciuti e supplichevoli, e probabilmente non ne erano neppure consapevoli.
Si chiese se anche le sue emozioni si leggessero così bene dal suo sguardo.
Finì la sua cena in silenzio e con la testa bassa. Non riusciva a sopportare di vedere tutto quel dolore che, voleva gridare, aveva provocato lei in un modo che non conosceva.
Le persone non pensano mai a possibilità remote come quella che era capitata a Heather. Perdere la memoria di una vita intera passata era probabilmente la cosa peggiore che potesse capitare fra i problemi cerebrali. Hai perso tutto ciò che avevi, hai il senso di colpa per ciò che stai facendo passare agli altri, però soffri dentro, e non hai il coraggio di dirlo a nessuno perché tutte le persone a te care stanno già patendo di loro.
Ti senti un mostro, ma non sai come lo sei diventato e non l'hai scelto.
Si sentì stringere lo stomaco e con la scusa della stanchezza tornò al piano di sopra e si immerse in una solitudine che, non lo avrebbe mai pensato, in quel momento era la sua migliore amica.

Quando si svegliò la mattina dopo, scese giù a colazione senza aspettare che qualcuno la venisse a chiamare e si sedette di fronte a Cole, mentre Elizabeth era ancora ai fornelli.
— Ho bisogno di un cellulare. — fu la prima cosa che disse. Suo padre alzò gli occhi dal piatto e sua madre si voltò verso di lei. Anche la tv sembrò zittirsi per un attimo, poi Cole le sorrise e — Ma certo, ne hai tutto il diritto. — disse, ma gli si leggeva in faccia che si stesse chiedendo cosa una ragazza con un amnesia potesse farci con un cellulare.
Ovviamente, quello che aveva prima era andato distrutto nell'incidente, e lei, anche se le avessero detto che avrebbero potuto fare qualcosa per recuperare foto o contatti, avrebbe rifiutato.
I suoi genitori si erano presi circa una settimana di ferie dal lavoro per rimanere un po' con la figlia finché le cose non si fossero stabilizzate. Ma le cose non si sarebbero mai stabilizzate, le venne voglia d'urlare quando i suoi genitori glielo dissero, incerti se allungare una mano verso le sue o meno.
Così, quella stessa mattina si recarono in un negozio per comprare un telefono.
Vide vetrine e vetrine di cellulari, pubblicità, cartelloni con le stampe delle foto di quest'ultimi seguite da offerte, e le venne voglia d'essere come tutte le ragazze normali che aveva intravisto sorridere elettrizzate per il nuovo modello d'Iphone che i genitori permettevano loro di comprare.
Non le montò la rabbia a vederle, non pensò che fosse sciocco essere felici per una cosa così stupida, perché desiderò ardentemente essere una di loro, e perché sapeva d'esserlo stata, una volta.
Si voltò e ne puntò uno a caso. Suo padre annuì e si diresse alla cassa.
Quando ebbe il telefono fra le mani, nessuna eccitazione crebbe dentro di lei, ma solo un profondo vuoto. Non aveva numeri da salvare e neppure foto da mettere come sfondo. Non sapeva che musica le sarebbe piaciuta ascoltare.
Lo ripose fugacemente in tasca e si concentrò sulla strada.
Due giorni dopo, fece la seconda proposta ai suoi genitori: — Vorrei uscire. —
Suo padre stava guardando la televisione mentre sua madre lavava i pavimenti, e le sembrò un quadrò così... normale, che le dispiacque aver rotto quella pace con la sua presenza destabilizzante.
— Prendo l'autobus. Ho cercato su internet. — Sorrise loro per la prima volta da quando erano tornati tre giorni prima dall'ospedale.
Da allora, i suoi non avevano fatto altro che chiamarla per uno dei tanti programmi che lei prima seguiva accuratamente. O avevano comprato cibo d'asporto come pizza e messicano per cena, dicendole che lei odiava il cibo cinese. Erano persino venuti a trovarla i suoi nonni da parte di sua madre. Vi ritrovò molto di Elizabeth in loro, soprattutto per la loro sensibilità.
E adesso, si sentiva davvero in vena di fare una passeggiata. Di non rimanere intrappolata lì un minuto di più per paura che dalla cassetta per la posta potessero sbucare fuori i zii.
Sua madre continuò a lavare per terra, ma Heather sapeva l'avesse sentita.
— Sei sicura d'aver controllato? Qui intorno ci sono tre fer– — cominciò suo padre, bloccando la partita di rugby che stava guardando e voltandosi verso di lei.
— Tre fermate dell'auto, lo so. Quello che va verso il centro di Seattle, quello notturno e poi quello con le fermate intermedie nella periferia. —
Lui la guardò sorpreso, mentre sua moglie strizzava lo straccio per i pavimenti e sospirava pesantemente. Heather sperò davvero che non dicesse nulla. Suo padre sembrò pensarci su, poi fece schioccare la lingua contro il palato e le sorrise nel modo più sincero e genitoriale che avessero mai fatto da quando li aveva "conosciuti".
— D'accordo, ma all'una in punto ti voglio a casa. —
Ettie si sentì una normale adolescente che chiedeva ai propri genitori di uscire. Sorrise all'uomo che aveva davanti e lo ringraziò, poi prese un giacchetto, le chiavi ed uscì.
Era riuscita a trovare il profilo di Luke su Facebook, dopo aver controllato per tre buone ore tutti i Luke nelle vicinanze che il social network le aveva trovato. Alla fine, il ciuffo biondo e il piercing avevano fatto capolinea nella foto profilo di questo ragazzo: Luke Hemmings. Nella foto c'era lui che sorrideva con un cappellino da baseball rosso a tirargli indietro i capelli biondi. Accanto a lui un ragazzo moro dai lineamenti asiatici. Entrambi avevano in bocca la cannuccia dei drink che stavano bevendo e il moro ci giocava per dare fastidio all'amico.
Così, contenta di vedere una faccia amica, gli aveva mandato un messaggio. Sperò davvero si sarebbe presentato, ma anche in caso contrario, fare una passeggiata le avrebbe fatto bene.
Il cancello bianco in ferro era adesso imponente davanti a lei, così si voltò e per la prima volta si accorse che c'era una piccolo prato verde che faceva da sfondo alla facciata principale dell'ospedale. Terminava in una decina di centimetri di cemento sul quale era impalata una staccionata bianca in ferro, un po' arrugginita, che tagliava a strisce il quadro della città sottostante.
In un momento in cui non c'era nessuno, Heather si appostò dietro ad alcuni cespugli, seduta contro la ringhiera a guardare di sotto, ed aspettò.
Non vide arrivare nessuna figura nera per una bella ora e mezza, ed era quasi convinta a rinunciare, quando un ragazzo con dei skinny jeans neri, una maglietta fino ai gomiti nera, le converse alte nere e un capellino da baseball rosso non percorse la salita per venire verso di lei. Aveva le mani in tasca e la testa bassa e sembrava stesse pensando a qualcosa.
Quando entrò nella piena visuale di Heather, Luke cominciò a guardarsi intorno, probabilmente cercandola. Aspettò un po' prima di uscire; voleva vedere cos'avrebbe fatto. Si chiese perché si fosse messa dietro quei cespugli. Non l'aveva fatto per nascondersi, ma adesso sembrava così e se fosse spuntata dal nulla sarebbe sembrata una pazza.
Si rimproverò di farsi troppi problemi e dopo qualche minuto uscì allo scoperto, cercando di non saltargli alle spalle come una stalker.
— Oh, ehi. — la salutò lui, colto alla sprovvista. Sembrava nervoso e un po' confuso, e a Heather venne da sorridere per quello, ma si trattenne.
Avrebbe tanto voluto salutarlo anche lei, e dirle che non era pazza, che si era appostata in quel posticino solo perché da lì riusciva a vedere tutta la città sotto di loro.
Amava Seattle, e il suo momento preferito era vederla al tramonto. Forse era banale, ma per la sua mente fresca e vuota, quello era il massimo che era riuscita a vedere nella sua vita di appena una settimana.
Spostò l'attenzione dai tetti delle case sotto di loro, illuminate dalla luce del giorno, al ragazzo davanti a sé.
— Scusa per il ritardo. Allora... hai un nuovo profilo facebook? —
Heather sorrise per la domanda che aveva posto, ma lo ringraziò mentalmente per aver rotto il ghiaccio. Luke sembrò pentirsi di questa subito dopo e si morse il labbro, dalla parte opposta al piercing. — Voglio dire, presumo che prima l'avessi... non ti sono mica andato a cercare... — Ettie annuì per farlo smettere di parlare, seppur lo trovasse maledettamente adorabile.
Luke indicò la panchina con la mano ancora nella tasca, — Ti va di sederci? — Heather annuì ancora e lo seguì a ruota. Subito dopo essersi seduti, Luke quasi saltò sul posto, urlando un "Dannazione, è bagnata!" che fece solo ridere ancora più forte Heather. Il ragazzo scese dalla panchina arrugginita per sedersi sull'erba e borbottò un "Non va molto meglio", poi rimase a guardare indisturbato la ragazza accanto a sé che rideva.
— Mi piace la tua risata. — Lei si fermò immediatamente e — Grazie. — disse, poi scese di livello e si sedette sull'erba umida accanto a lui.
— Allora, come mai hai voluto incontrarci sempre qui? —
Ettie fece spallucce, continuando a guardare davanti a sé il panorama che si estendeva oltre dove il suo sguardo riuscisse ad arrivare.
— Avevo bisogno di un punto di riferimento e questo è l'unico che conosco oltre alle fermate d'autobus intorno a casa mia. A proposito, ne ho saltata una in città per venire qui e ho dovuto rifare tutto il tragitto perché avevo paura di scendere e prendere un altro autobus. —
Luke rise e contagiò anche lei, e poco dopo si ritrovarono a parlare indisturbati di argomenti che permisero loro di conoscersi meglio.
— Allora, che cosa hai fatto di emozionante fino ad ora in questa nuova vita? —
— Be', diciamo che sono più le cose che non ho fatto. — Arricciò il naso e stese le gambe davanti a sé. Portava un jeans nero strappato all'altezza di un ginocchio e di una coscia, una t–shirt bordeaux e un giacchetto grigio dell'adidas. A Seattle pioveva davvero molto spesso, perciò le temperature non erano mai molto gradevoli.
— Oh, andiamo, hai l'occasione di ricominciare e lasciarti tutto alle spalle. Sai quante persone lo vorrebbero? —
Heather gli sorrise con gli occhi socchiusi per il sole e poi tornò a cercare con lo sguardo il punto più lontano che esso riuscisse a raggiungere.
Sapeva che Luke cercava di tirarla su di morale, che aveva tutte le buone intenzioni, e sapeva anche di avere in parte ragione, ma lei non si sentiva per niente una persona ottimista (non sapeva se lo fosse anche prima) e preferiva darsi tutto il tempo di cui aveva bisogno per crogiolarsi nella commiserazione.
— Non ho ancora pianto. — Si voltò verso di lui. — Mai. Neppure una volta. — Annuì con la testa, come a rivivere gli ultimi giorni dentro di sé e a pensare "Sì, non ho davvero pianto neanche quando ho visto i miei genitori e non li ho riconosciuti".
Luke la guardò con comprensione in viso, ma non come se gli dispiacesse per Heather, ma come se riuscisse davvero a capire di cosa lei stesse parlando.
— E non mi sono mai guardata allo specchio. — Luke inarcò le sopracciglia istintivamente e poi rimase ad ascoltarla. — Quando la mattina mi lavo i denti, non rimango mai in bagno, ma giro per le stanze: scelgo i vestiti da indossare, sistemo la mia stanza... —
Il suo tono la fece apparire quasi fiera di questa abitudine che stava portando avanti, ma dentro di sé la faceva sentire ancora più morta di quanto già non si sentisse. Rendeva quella situazione in cui si trovava – che avrebbe dovuto imparare a chiamare vita d'ora in poi – un po' più surreale. Perché lei non voleva divenisse realtà.
E la cosa non la disturbava affatto. Non voleva vedere il suo viso, com'era fatta. Non voleva guardare quella ragazza pur sapendo che non l'avrebbe riconosciuta.
Come puoi non riconoscere te stessa? Le sembrava assurdo. Le sembrava –
— Okay. — annuì Luke, come se non fosse una cosa così grande. Come se andasse davvero bene il fatto che lei non stesse bene. Forse era così. Forse era normale che una ragazza appena uscita da una coma, con un amnesia, non stesse bene. E Luke sembrava averlo capito, questo, anche prima di lei.
— Okay. — ripeté Heather, mentre quella consapevolezza cominciava a piacerle.


(one of my favorite chapters btw)

amnesia.Where stories live. Discover now