Capitolo 6: Perdonatemi

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"Ricordati che l'uomo non vive altra vita che quella che vive in questo momento, né perde altra vita che quella che perde adesso."

(Marco Aurelio)


Berlino, 14 ottobre 1941

Era passato un anno dalla scomparsa di Natan, dalla sua fuga da quel posto nascosto e muto.

Dove era? Stava bene? O lo hanno portato ai campi di concentramento? O è riuscito a fuggire in America? Se è lì, è al sicuro? Avrà trovato qualcuno che lo ha accolto?

Queste erano le domande che Ariela si poneva ogni giorno. Ogni singolo secondo delle sue giornate.


Da esattamente un anno, Ariela scriveva un diario segreto improvvisato con un vecchio quadernino, cominciato il 14 ottobre 1940, giorno della scomparsa di Natan. Esso aveva una copertina rigida, ruvida e bianca con decorazioni colorate e floreali, mentre i fogli erano a quadretti.

Controllò l'orologio posto sulla scrivania accanto a sé e segnavano le 4:00 di notte. In parte, Ariela si sentì fortunata per essere riuscita a rimanere sveglia fino a quell'ora, visto che voleva mettere in atto questo piano da tanto tempo, ma i pianti per la scomparsa improvvisa di Natan l'aveva resa molto debole e spesso si addormentava facilmente. Ma quella notte decise di essere forte e aspettare che tutti si addormentassero per poi uscire dal nascondiglio e recarsi nel negozio del padre. O meglio, il vecchio negozio del padre.

Ora era seduta sullo sgabello avvicinato al bancone di legno di ciliegio. Ariela non voleva andar via da quel bancone, in quanto le riportava alla mente i ricordi della sua infanzia. Si guardò intorno e si soffermò sullo scaffale dove erano poste le chitarre e Ariela vide, seppur con l'immaginazione, una Chana adolescente e timida e un Alex alto, bello e tenerone.

Sorrise e continuò a guardarsi intorno, fino a soffermarsi sulla porta. Lì, invece, vide Natan entrare dalla porta con la faccia sporca di terra, l'affanno e il corpo magro, i vestiti strappati e scalzo, ma con un grande sorriso felice di vederla.

Anche lei sorrise, ma scosse il capo non volendo immaginare anche il ritorno del suo più caro amico.

Abbassò lo sguardo e sospirò di nuovo, rileggendo quella che sarebbe stata l'ultima pagina del suo diario.





14 ottobre 1941, Berlino.

È passato un anno dalla scomparsa di Natan e la sua assenza si percepisce. Ovunque. Non solo nel letto, quando vado a dormire e al mattino quando mi sveglio, ma anche durante i pranzi, le cene e le discussioni su cosa fare il giorno dopo e chi deve rischiare la vita per uscire di notte e recuperare il cibo che il signore del primo piano della struttura lascia davanti al negozio ogni notte. Lui è tedesco, ma non parlerà mai di noi. Ha deciso di aiutarci perché ha un cuore buono e altruista. Un uomo d'oro. Si chiama Adam e ha degli occhi verdi meravigliosi. L'ho visto una volta mentre papà andava a recuperare il cestino.

Nonostante tutto, Natan mi manca e non credo di continuare a vivere senza la sua assenza. Fino ad ora ho sperato in un suo ritorno, ma le mie speranze sono volate via come leggere piume bianche e calde trasportate da un vento gelido e pungente.

Non ce la faccio più a vivere in una gabbia, dove non mi è permesso di starnutire, né di respirare, per non essere scoperti. Mi sento come un uccellino in gabbia: incapace di muoversi, ma penso che sia meglio uscire da questa gabbia e affrontare la vita con tutti i suoi difetti e pericoli.

Quindi oggi, la faccio finita, termino qui il mio alloggio nella mia gabbia.

Anche a costo di metter fine alla vita degli altri.

Where are you?Where stories live. Discover now