Cap 8: Freedom

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"Nella vita non bisogna mai rassegnarsi, arrendersi alla mediocrità, bensì uscire da quella "zona grigia" in cui tutto è abitudine e rassegnazione passiva, bisogna coltivare il coraggio di ribellarsi.

(Rita Levi Montalcini)


Auschwitz, 27 gennaio 1945

Nel capanno entrarono i nazisti urlando e strepitando come pazzi. Ordinarono alle donne di seguirli e di fare in fretta. Le SS non fecero l'appello e portarono il gruppo di donne direttamente vicino al filo spinato, dove alcune furono messe in fila e fucilate, mentre altre furono portate nelle camere a gas e bruciate.

Senza pietà.

Senza compassione.

Senza ripensamento.

I militari salirono su una camionetta e fuggirono, lasciando il campo con i suoi orrori e le sue vittime ancora lì, per terra, e con lo sguardo che esprimeva il dolore provato prima della morte.

Nel campo regnava il silenzio: non si udivano più passi, né urla, né motori di camionette o macchine. L'unico a camminare su quella terra dimenticata e abbandonata, era il gelido freddo di gennaio.

Ariela era nel "nascondiglio" con Ester. L'abbracciava forte per trasmetterle forza e coraggio. In quei quattro anni, Ariela perse peso diventando uno scheletro che camminava, in quanto cominciò a rifiutare il proprio cibo per darlo ad Ester.

Anche se sembrava che le SS fossero fuggiti, Ariela non voleva uscire di lì. Sapeva che le SS erano militari senza cuore e senza pietà, che se avrebbero visto un ebreo lo avrebbero ucciso, fucilato, picchiato o violentato anche senza un motivo apparente.

Improvvisamente la maggiore vide due paia di stivali neri e laccati. Poi due voci che parlavano una lingua a lei conosciuta: l'inglese.

Quando udì un militare dire "No, qui non c'è nessuno", Ariela voleva urlare e uscire, ma non aveva forze. Quando vide gli stivali allontanarsi, con quella poca forza che le era rimasta, disse un Help!, che portò i militari a fermarsi sulla soglia del capanno.

"Hai sentito anche tu?" un militare chiese al proprio collega.

"No." Rispose l'altro "Cosa?"

Quando il primo militare si voltò, vide un sassolino uscire da sotto gli scaffali di ferro. Poi ne vide un altro e un altro ancora.

"Paul, vieni, qui c'è qualcuno!" disse il militare.

Quando Ariela vide gli stivali degli Alleati, si rallegrò. E fu ancora più contenta quando la tirarono fuori con Ester e la portarono su un letto con calde coperte. La ragazza dai capelli rossi non si volle separare da colei che era diventata sua sorella acquisita, così dormivano insieme nello stesso letto, mangiavano insieme e venivano visitate insieme.





Dopo molti mesi, Ariela ed Ester, così come altri sopravvissuti, furono portati fuori dal campo e venne chiesto a tutti il proprio nome e cognome e, grazie alla cura fornita dai medici americani, ripresero peso e fu dato loro nuovi vestiti puliti e profumati.

"Io mi chiamo Ariela Abib" Disse la rossa "Lei è mia sorella Ester Abib." La maggiore teneva per mano la minore, la quale non era sua sorella di sangue, ma la sentiva come propria e chissà se, un giorno, le avrebbe raccontato la verità sul suo passato.

"Abib?" per John, il militare che l'aveva salvata e che ora stava facendo l'appello, quel cognome era familiare. "Conosci un certo Emanuel Abib?"

"Sì, è mio cugino." rispose Ariela.

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