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Not about angels - Birdy 

A/N: preparatevi a piangere con questa canzone.

***

Il padre di Paige.

L'uomo che l'aveva abbandonata. L'illustre dottore che l'aveva trascurata per lavoro.

Lui e sua figlia non avevano assolutamente nulla in comune. Non si somigliavano affatto. Forse soltanto il castano dei suoi occhi richiamava, in qualche modo, il cioccolato fondente di quelli di Paige.

-Non ci credi per caso?-

-Sì, ci credo.-

Restai ancora qualche secondo fermo a ispezionare quella figura come in cerca di comunanze con quella di Paige. Aggraziata, mai sgarbata, dolce.

Si fece spazio nella stanza e si guardò attorno, osservandola da cima a fondo.

-Non mi aspettavo di certo che alla fine si sarebbe sistemata come si deve, qui a Londra...- mormorò, passando a scrutare le tele, quelle su cui Paige aveva pitturato la sua visione di un mondo troppo vasto. -...E infatti, non mi sbagliavo.-

-Paige non c'è, ma posso dirle che è passato appena torna.-

Si soffermò sul dipinto di una Londra ormai sommersa dalla notte e dalla lucentezza delle stelle, venute meno a causa di quella delle luci in città.

-La incontrerò domani al locale in cui lavora, allora.-

-Non andrà al Tetch domani e forse non ci andrà per tutta la settimana.-

Si voltò e mi guardò con uno sguardo contrariato. -Come mai?-

-Sono malato. Vuole starmi vicino e miracolosamente il nostro capo glielo ha consentito,- risposi con un'alzata di spalle.

Non provai vergogna davanti all'uomo che, di malattie, ne vedeva quasi ogni giorno.

-Cos'hai, l'influenza?-

Colsi quel velo sarcastico con la giusta ironia.

-Più o meno. La leucemia è considerata una forma grave d'influenza da voi dottori?-

Avevo sempre ammirato e disprezzato contemporaneamente il lavoro dei medici. Curare persone ma essere anche colui che tesse il loro destino. Avere tra le mani la vita di un individuo dev'essere compito esclusivo di gente consapevole delle proprie capacità, che non ha timore della possibilità di fallire. Per questo pensavo che i medici fossero persone dal cuore freddo.

Provavo pena per i dottori che mi avevano assistito da bambino: vederli lottare insieme a me contro una malattia che non getta mai le armi a terra e che, anche quando sembra che si sia arresa, ritorna con un intero esercito alle sue spalle pronto a distruggerti.

Mi si avvicinò a passo calmo e osservandomi intensamente. Mi mise quasi in soggezione. Sembrava mi stesse scansionando, che mi stesse facendo un'analisi.

-Ho cambiato idea. Non dire a Paige che sono passato,- disse a un certo punto. -Chi sei tu? Il suo ragazzo?-

Effettivamente non avevamo ancora definito nulla, io e lei. Avrei dovuto dire a suo padre che aveva un ragazzo malato, un ragazzo disperato? E se lei non avesse voluto parlargli? E se non avesse voluto vederlo? Se avesse scoperto che in quel momento ci stavo parlando, come avrebbe reagito?

Continuò a guardarmi come se volesse intimorirmi. Ma ormai era difficile provare quel genere di paura. Mi era difficile percepire un'emozione più forte che potesse competere con il terrore che mi aveva già conquistato mente e corpo. L'avevo dentro, quella paura. Ci convivevo ormai.

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