Prologo

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Cominciò tutto una notte d'inverno, quando avevo appena sette anni.

Mi ero già infilata il pigiama di pile da almeno un'ora, ma avevo pregato la mamma di farmi rimanere alzata ancora un po', erano solo le nove.
Era papà che mi metteva a letto di solito, e penso che sperassi che arrivasse a farlo anche quella sera.

Mia madre abbozzò un sorriso stanco, senza protestare, e mi accontentò. Sapeva quanto odiassi i cambiamenti, perché ogni giorno per me era una nuova sorpresa. Sarei stata in grado di camminare una volta sveglia? I miei occhi avrebbero saputo distinguere ancora le figure colorate dei cartoni in tv? Era tutto un forse, un chissà, un speriamo. "Speriamo che non peggiori", quante volte l'avevo sentita questa frase?
Avevo solo sette anni.

Il calore del camino mi accarezzava le dita dei piedi, le braccia e la punta del naso, mentre tenevo le ginocchia strette in un abbraccio, aggomitolata sulla poltrona di papà.

Stavo aspettando che mia madre tornasse a leggermi Il Piccolo Principe, le avevo promesso che poi mi sarei lasciata portare in camera e avrei dormito con la luce spenta, come una ragazza grande. Ma nell'attesa la mia testa si faceva sempre più pesante, gli occhi non volevano più stare aperti, quel torpore mi obbligava a lasciarmi andare al sonno.

Lei era nel corridoio da un'infinità di tempo, ormai. Non c'era da meravigliarsi se mi stessi addormentando. Era china sul tavolino sotto le scale, con la cornetta del telefono di casa attaccata all'orecchio, sotto quella massa di capelli scuri e vaporosi di cui ormai non ricordo più il profumo.

«Sì. Sì, ha avuto le convulsioni, ma adesso sta bene. Oggi ha camminato per un'ora! Non tutta di fila, ma... No, mio marito non vuole, è contrario... Davvero? Lo dite davvero, dottore? Io ho tutto qui, dovrei solo...»

Nel dormiveglia sentivo in lontananza quella voce rauca e tremante parlare piano. Era quella la voce che avevo sentito cantare una volta? Ma allora era stata limpida, rassicurante.
Era estate, o forse primavera. Ricordo solo lunghe lenzuola bianche colpite dal vento. Mia madre stendeva i panni su una corda di ferro nel giardino. Cantava, la voce calda e serena:
Ti amerò per sempre, se anche le nostre strade non dovessero più incrociarsi, ti amerò come adesso, ti amerò come adesso...

La voce si faceva sempre più vaga, e parlava di me. Era chiaro che dall'altro capo del filo ci fosse un dottore, lo avevo capito subito quando aveva risposto.
«Buonasera, dottor Hunter...»

Non era insolito che i miei genitori passassero sere intere al telefono, leggendo e confutando insieme fogli dall'ospedale, analisi, diagnosi. Spesso accadeva che alzassero la voce, si contraddicessero a vicenda. Erano stanchi. Come biasimarli?

Mi scivolò la testa e la sbattei contro il bracciolo della poltrona, svegliandomi subito. Ero smarrita, e in un primo momento non capii cosa ci facessi lì.

«Mamma?» la chiamai girandomi.

«Certo, preparerò Anastasia. La ringrazio, non sa quanto questo significhi per noi.» Riattaccò il telefono e venne verso di me rapidamente. Stava sorridendo, era emozionata. Mi prese il viso tra le mani sottili e ossute, erano fredde, e nella sonnolenza mi scostai, strofinandomi gli occhi.

«Tesoro mio! Luce mia! Adesso devi prepararti, dobbiamo uscire.» 

«Ma è notte, mamma.» parlai incredula.

«Hanno trovato una cura, bimba mia! Dobbiamo solo andare da loro, e poi starai bene per sempre.» ma io feci una smorfia di fastidio. «Fai uno sforzo, vuoi? Per me." mi incoraggiò con lo stesso tono elettrico di voce.

"Voglio papà." dissi con tutta l'innocenza del mondo.

Lei non perse altro tempo e mi alzò in braccio. Benché io stessa fossi una bambina tutta pelle e ossa, ero pesante per il suo corpo esile, e ogni volta che mi portava in braccio avevo una leggera paura che saremmo cadute insieme. Ondeggiava pericolosamente sulle scale, le stesse da cui più di una volta io ero rotolata giù come un sacco di patate.
Loro avevano litigato anche per questo. Papà voleva cambiare casa, sosteneva che quella non fosse più adatta a noi. La mamma invece si ostinava a farmi camminare, ancora un passo, mi diceva, ci sei quasi. Non voleva accettare la mia malattia.

Paziente Nr. 616Where stories live. Discover now