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Beatrice
Passai cinque giorni a casa, tra letto e divano. Dissi a Chiesa di non sentirmi bene e lui ovviamente ci credette.
Il piano era quello di evitare Bernardeschi a tutti i costi.
'Non te la senti di venire alla partita?' domandò dolcemente Chiesa, tastandomi la fronte.
'No...'.
'Ti senti la febbre?'
'Non è febbre...è più che altro un malessere generale' borbottai.
'Hai bisogno di qualcosa in farmacia?'
'No, grazie'.
'Va bene, torno stasera. Se peggiori chiama Mattia' si raccomandò e si avvicinò per baciarmi.
'Sei contagiosa?' chiese scherzoso, ma non aspettò neanche una mia risposta che bisbigliò: 'Correrò il rischio' e posò le sue labbra sulle mie.
'Che temerario' risi, stringendolo.
'Ti amo' disse, uscendo di casa.
'Anche io'.
Non appena se ne andò, mi affacciai al balcone.
Era una giornata splendida ed io avevo davvero bisogno di fare quattro passi e prendere un po' d'aria, dopo il mio breve, ma intenso, ritiro volontario.
La possibilità di imbattermi in Bernardeschi era pressoché nulla, dal momento che la Juventus sarebbe scesa in campo in un paio d'ore.
Veronica era allo stadio, mentre Beppe era bloccato al lavoro.
Avrei potuto chiamare le mie vecchie amiche dell'università o persino Anna, ma decisi di trascorrere ancora un po' di tempo da sola, cercando di liberare la mente da quei pensieri intrusivi che mi tormentavano senza sosta.
Misi addosso le prime cose che trovai ed andai al parco.
Il sole spaccava le pietre e mi fece boccheggiare fino a che non trovai un riparo all'ombra di un pino.
Mi chiesi come facessero i calciatori a sopportare quel caldo mentre correvano di qua e di là per il campo.
Mi domandai anche che cosa stesse pensando Chiesa, se fosse agitato per la partita, e, soprattutto, se avesse anche solo una minima idea di quello che mi stava passando per la mente di recente.
Lasciai da parte, per quanto possibile, le mie riflessioni, indossai gli occhiali da sole e quasi mi addormentai, dimenticandomi completamente dei bambini urlanti che mi circondavano.
Era il primo momento di "pace" dopo giorni.
Sentii finalmente i problemi farsi più leggeri e cessò pure il mal di testa, ormai diventato una costante.
Rimasi là a rilassarmi ed a godermi il venticello fresco, che aveva cominciato a soffiare dolcemente, fino a che una voce fin troppo familiare non mi fece rinvenire dal mondo del favole.
'Ciao'.
Dischiusi le palpebre e vidi Bernardeschi, in piedi davanti a me, insieme ai suoi cani e ad un sorriso abbagliante, quasi quanto i raggi solari.
'Ciao'.
Restammo a guardarci senza parlare o muoverci per almeno una decina di minuti, come se nessuno dei due sapesse come comportarsi.
Molti avrebbero definito la situazione pesante, ma io la trovai più che piacevole.
Tra tutte le persone al mondo, Federico era il primo che avrei scelto per condividere un silenzio.
Con lui non era imbarazzante e non avevo mai paura, proprio come in quel caso, di non sapere che cosa dire.
Per me e Bernardeschi era soltanto un altro modo di comunicare.
Il bello tra noi due era anche questo: quello che dovevamo dirci andava, quasi sempre, oltre le parole.
'Le parole ripetute troppe volte perdono il loro significato...' avevo letto ad alta voce una sera da un articolo trovato casualmente su Facebook.
'Non quando ti dico 'ti amo'' aveva ribattuto lui. 'Anche se te lo dovessi ripetere all'infinito'.
Col tempo, iniziò a dirmelo anche senza usare la voce.
Era sufficiente uno sguardo per capire quanto mi amasse, così come a lui, bastava un'occhiata per accorgersi di quanto io fossi innamorata.
Il silenzio però mi aveva sempre fregata e quella volta non fu un'eccezione.
Era nella quiete che tornava a galla tutto quello che avrei voluto dire. Quello che mi spaventava di più, che non avrei raccontato né ammesso né mai dimenticato.
Forse però le cose che non ci eravamo detti erano diventate troppe. Si erano accumulate come detriti, nell'attesa che almeno uno dei due mettesse da parte l'orgoglio e le facesse uscire.
Io le sentivo bloccate in gola. Avevano formato una diga più resistente dell'acciaio e mi impedivano di respirare.
'Stai bene?'
'Perché non sei a giocare?'
'Ho un problema al flessore. Nulla di grave, ma il Mister non voleva rischiare' spiegò, senza distogliere lo sguardo dal prato appena falciato. 'Quindi come stai?'
'Non sto bene' rivelai, ma lui non parve sorpreso.
Fece qualche passo e venne a sedersi accanto a me sulla panchina che avevo occupato.
'Chiesa ci ha detto che stavi male'.
'È vero, ma lui non sa il perché'.
'Spero che il tuo perché sia uguale al mio' mormorò, visibilmente nervoso.
'Qual è il tuo perché?'
'Il mio sei tu' ammise dopo aver preso un respiro profondo.
'Ti faccio stare male?'
'Lo sai...in questi giorni mi è capitato di pensare che forse sarebbe stato meglio non averti mai incontrata' commentò, senza rispondermi.
'Ma?'
'Chi dice che ci sia un ma?'
'C'è sempre un ma'.
'Ma credo che tu sia entrata nella mia vita per un motivo' sputò fuori, lasciandomi ammutolita. 'E non lo voglio ignorare'.
'Non devi ignorarlo' pensai, involontariamente, ad alta voce.
'Ritrovare ciò che ho lasciato andare e non poter fare nulla per riportarlo da me. È questo che mi fa stare così e visto che quello che ho perso sei tu, è più facile dare la colpa a te che ripetermi per l'ennesima volta che sono stato un coglione'.
'Credo che sia troppo tardi per questo'.
'Forse io e te abbiamo un altro tempo' disse, citando "Gli amori difficili", una raccolta di novelle di Italo Calvino.
Mi tornò subito alla memoria il giorno in cui mi regalò quell'antologia ed io gliela lessi prima di andare a dormire.
Non riuscii a trattenere un sorriso di fronte ad un ricordo così dolce.
'Lo hai dimenticato da me' spiegò malinconico. 'Lo ritorno a Chiesa appena lo vedo'.
'Tienilo pure'.
'Ti conosco e so quanto tieni ai tuoi libri' rise, dandomi un buffetto sulla guancia.
'Sai anche quanto tengo a te'.
Ero perfettamente cosciente di tutto quello che stavo dicendo. Non me ne sarei pentita perché, dopo tanto tempo, sentivo di aver ritrovato la strada di casa.
Percepii il groppo alla gola sciogliersi lentamente, parola dopo parola.
'Non pensavo ci tenessi più a me. Non me lo meriterei neanche'.
'No, però credo nelle seconde possibilità'.
'Ricominciamo da capo?'
'E come vorresti farlo?' domandai con gli occhi ormai lucidi ed, innegabilmente, speranzosi.
'Come amici'.
Ma quanto potevo essere stupida?
Che cosa mi aspettavo che sarebbe successo?
Che avrebbe lasciato Angela?
Ed io?
Avrei lasciato Chiesa?
No. Non sarebbe andata così.
Il senso di colpa, per aver anche solo pensato ad un simile scenario, mi pervase lo stomaco.
Avrei davvero fatto una cosa del genere al mio ragazzo?Ero una persona terribile.
'Che dici?'
Qualcosa dentro di me si spezzò, ma non lo diedi a vedere.
Mi venne alla mente, la me bambina, che, ad ogni Natale, si aspettava di trovare un gattino sotto l'albero.
I miei invece mi regalavano sempre l'allegro chirurgo o il monopoli o, in casi del tutto eccezionali, un puzzle.
Insomma...non era mai quello che speravo ma me lo facevo andare bene lo stesso e mi consolavo, dicendomi: 'È sempre meglio di nulla'.
Crescendo, però, lo avevo capito, che, alle volte, non avere niente è meno doloroso.
Sapevo altrettanto bene che, nel caso di Federico, rifiutare e scegliere il niente, avrebbe comportato un prolungamento della sua assenza dalla mia vita.
Decisi di farmi andar bene la sua amicizia, pensando che, nonostante accontentarsi fosse sinonimo di infelicità, sarebbe stato decisamente peggio se non fossimo stati niente.
Sotto il pino del parco, avevo trovato un'altra volta l'allegro chirurgo e, proprio come una bambina, avevo pensato che fosse meglio di nulla.
Quello non lo avrei proprio sopportato.
'Amici'.

Back to you | Federico BernardeschiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora