Sono più per il rum (III)

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Quando arrivo a casa Zuccato e trovo il posto-auto del cortile vuoto, traggo un sospiro di sollievo. Massimo e Rita devono essere usciti per cena, dandomi tutto il tempo per parlare con Marco, con calma. Calma. Ma chi voglio prendere in giro?

Immagino la scena e tutto quel che vedo è l'espressione delusa di Marco: il viso che si contrae; la voce che si alza, l'ira che lo porta a pronunciare un "vattene", "non ti voglio vedere mai più", "da te non me l'aspettavo". Solo il pensiero di queste parole aumenta il senso di vomito.

"E allora che fai? Vuoi fuggire in eterno?" mi chiede il grillo. "Domani hai scuola. E a scuola ci sarà Marco. A scuola ci sarà Stefano. Vuoi che venga fuori davanti a tutta la classe?"

Ha ragione.

Suono il campanello. Solo quando il polpastrello pigia il bottone nero, mi ricordo che sto indossando la felpa di Marco. La rivorrà indietro, non appena spiffererò la mia colpa e io non mi sono portata il cambio. Sento le lacrime salire agli occhi, ma è troppo tardi per fuggire. Un "sì?" gracchiato esce dal citofono.

«Nina» dico.

La porta si socchiude. La apro del tutto e mi accorgo che Marco non è nei paraggi. Percorro il corridoio, usando la parete come sostegno e lo trovo nel salotto, stravaccato sul divano, davanti alla televisione. Ha tolto il telo bianco dallo schienale e se l'è legato al collo, come il mantello di Superman. Un giorno come un altro, riderei, lo insulterei per la sua stupidità. Adesso, invece, mi viene da piangere.

«Mi dispiace.»

Non sono stata io a dirlo. Marco mi dà la schiena e fissa il televisore spento. Il suo "mi dispiace" è una pistola carica e ha appena sparato. Il primo bossolo mi ha presa di striscio. Ci sono altre sei cartucce che aspettano di uscire dalla canna. A Marco basta parlare, per premere il grilletto.

«Mi dispiace» ripete. Un secondo sparo. Non dispiacerti.

«Sono stato un coglione.» Terzo sparo. Perché non sai cosa ho fatto io.

«È solo che lì, su due piedi. Quel tizio sul letto era Biagio.» E siamo a quattro. Ti prego, non ricordarmelo.

«Ma non era Biagio, capisci?» Cinque. Fin troppo bene.

«E mi dicevo che doveva esserci, da qualche parte, no? È la sua testa. È il suo cervello. Allora perché non ricorda le cose che deve ricordare?» E sei. Come vorrei essere io a scordare tutto.

«È stupido pensare che...» Adesso.

«Ho fatto sesso con Stefano.»

Non si torna più indietro. Ho sparato un proiettile più letale dei sei di Marco, un'unica cartuccia, ma distruttiva quanto un colpo di bazooka. Deglutisco fiumi di saliva, mentre vedo le spalle di Marco tendersi e la sua eterna parlantina rifiutarsi di pronunciare un singolo suono.

"Insultami! Di' qualcosa! Qualsiasi cosa!"

Ma Marco è zitto e non si gira per tirarmi uno schiaffo. Per le mie orecchie, non c'è grido più rumoroso e straziante del suo silenzio. Ripeto le parole di Stefano: "Non sei una sua proprietà", ma su di me sento di nuovo quella sensazione. Sono di nuovo il serpente, Eva e Adamo. Sono di nuovo Giuda.

Marco si alza,senza guardarmi. Ignora la mia esistenza e si ritira in cucina. Lo seguo. C'è una bottiglia di Jack Daniel's, vuota per metà, vicina al lavello e agli stracci per asciugare i piatti. E poi c'è un bicchiere della Coca Cola che non si dovrebbe usare per i superalcolici. Marco continua a darmi la schiena, mentre si versa due dita di whisky. Lo butta in gola in un colpo solo. Tossisce.

Binomio - 1Where stories live. Discover now