11. Banco di prova | Present;

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"Non ho mai capito perché all'inizioKacchan mi odiasse così tanto

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"Non ho mai capito perché all'inizio
Kacchan mi odiasse così tanto."

«AAAAAAAAAAAAAAAH!»

L'urlo che emetto all'improvviso sembra scuotere le mura di tutta la casa.

Devo aver decisamente spaventato Aizawa, perché lo sento gridare di preoccupazione dall'altra stanza, alzarsi di fretta, urtare qualcosa nella sua distratta corsa e imprecare a denti stretti; i suoi passi rumorosi precedono di poco il movimento con il quale apre repentinamente la porta scorrevole che separa la zona giorno dalla zona notte, quella nella quale mi trovo io.

La stanza da letto è una replica della mia camera a casa di mamma, non per come è arredata, ma per le sue condizioni: la mia valigia è esplosa di nuovo e ci sono vestiti sparpagliati ovunque. A differenza di Kasumi, Shota è disordinato quanto me, quindi i suoi indumenti sono fuori dall'armadio come i miei, ma almeno quelli li ho ammucchiati su una sedia per capire meglio quali abiti io abbia portato con me.

«Cosa? Che succede? Dov'è il pericolo?» dice mio padre.

Mi giro verso di lui, con gli occhi sgranati, e devo trattenermi dal ridergli in faccia, perché ha un aspetto davvero buffo: capelli spettinati, fiato corto, occhi al solito arrossati... e si sta tenendo con una mano il piede che deve aver sbattuto contro lo spigolo di qualcosa nella sua frenetica corsa.

Non ho il coraggio di rispondergli. Mi copro il viso con le mani e soffoco un altro urlo.

Lui mi raggiunge a grandi falcate – apprezzo molto il fatto che ignori il dolore al piede - e mi afferra per le spalle. «Ruka, che succede? Ti senti male? C'è un insetto? Hai visto qualche persona sospetta fuori dalla finestra?» Attraverso le fessure che creo tra le mie dita, lo vedo guardarsi intorno con aria allarmata.

«No... non è....» mormoro, ma il resto della frase esce fuori come un piagnucolio insensato e biascicante, «...fretta... niente... ritiro...»

Mio padre è sempre stato un asso nel comprendermi, molto più di mia madre. Deve aver capito che sto semplicemente affrontando una crisi adolescenziale che, con buone probabilità, non saprà né come gestire né comprendere.

Mi lascia andare le spalle e si massaggia gli occhi, mentre io chino il capo, piena di vergogna e sconforto. Lo sento sospirare, quindi si muove verso la sedia strapiena di suoi vestiti – tutti rigorosamente neri. Li imbraccia, senza dire una parola, e li butta tutti appallottolati nell'armadio. Combatte un po' contro le ante, per chiuderle e non rischiare di venire travolto da una valanga di panni, quindi si accomoda sulla sedia ora libera. «Avanti, che succede?» dice, con tono un po' scocciato, ma paziente.

Storco le labbra in una smorfia e finalmente tolgo le mani dal viso e me le torco in grembo. «Non sapevo che dovevamo partire, quindi ho portato tutti vestiti non adatti...» mormoro impacciata.

DISTANCEDove le storie prendono vita. Scoprilo ora