fatti per amare

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Mi viene bene descrivere il mio dolore. Mi sono sempre detta che fosse un buon punto di partenza per essere felice, eppure più lo descrivo e più mi ci ritrovo. L'unica cosa che ho saputo amare nella mia vita è stata l'arte. Quando la vedevo negli altri, mi innamoravo di quella. Come la perla nelle ostriche, per estrarla l'animale va ucciso. Pensavo, qualche tempo fa, che la mia tendenza all'analizzare e mettere a parole il mio dolore fosse una medicina, non un sintomo. C'era un solo ragazzo che non era d'accordo con me. Pensava fossimo predisposti, noi due, al dolore. Mi disse "Lora noi siamo poeti, non siamo fatti per essere felici". Lora noi siamo poeti, siamo fatti per soffrire. È bizzarro quanto uno debba sacrificare per amare davvero l'arte, per sentirla propria, per crearla, per trovarla e riconoscerla dappertutto. È bizzarro quanto poco ci voglia agli artisti per perdere la testa. Quanto l'arte ti connetta col mondo e quanto l'amarla ti alieni dallo stesso. Non ne ho mai abbastanza, sono un'ingorda di arte e mi ci perdo dentro. Vaglielo a dire agli altri, questo. C'è chi ti guarda come un pazzo, chi come un povero fallito che non è in grado di vivere normalmente, chi ti ammira. Il comun denominatore è che ti senti solo. Lui pensava che fossimo tutti soli, ma io non sono mai stata d'accordo. Era l'unico che un po' mi assomigliava, aveva lo stesso dolore nel sangue. Il tipo di dolore che ti mangia, solo che nel nostro caso aveva già digerito e di noi era rimasto molto poco. Per questo lui mi sopportava senza impazzire cercando di comprendermi. Avevamo accettato il fatto che ci capivamo quanto bastava per condividere la solitudine qualche ora del giorno. Ci parlavamo solo quando avevamo qualcosa da raccontare. Parlavamo tantissimo, e le parole scorrevano da sole. Parlavamo e basta senza perdere tempo nelle convenzioni sociali del "oggi c'è bel tempo" e "che hai mangiato stamattina?", né ci chiedevamo "come stai" perché sapevamo la risposta. Ignoravamo chiacchiere inutili per tacito accordo e passavamo tutto il nostro tempo a discutere di etica e di filosofia, di libri e di cinema, e io mi sentivo un essere umano e mi permettevo di essere intelligente. In un mare di paradossi ci sentivamo un po' capiti. Mi sono sempre detta che eravamo troppo simili perché lui fosse felice, e gli dicevo il contrario ma pensavo che, come me, non lo sarebbe mai stato. Questo però lo sapeva pure lui. A volte leggevo qualche pagina che scriveva. Sebbene al tempo non avessimo ancora raccontato di noi due ai nostri quaderni, adesso sono quasi sicura che abbia scritto di me. Mi piace pensare che abbia trovato un'altra persona come noi, qualcuno che ci assomigli, ma non ci credo davvero. Sarebbe bello se avesse avuto l'occasione di descrivermi a una persona vera, che non sia un'anima racchiusa in un diario. Non lo sento da così tanto tempo che mi sembra quasi sparito, inghiottito da un'altra città in un ultimo vano tentativo a raggiungere una felicità illusoria, che ci è sempre stata stretta. Mi piacerebbe leggere ancora cosa scrive, rivedermi nelle parole di qualcun altro.
Non so dove sia ora, ma se siamo così simili, mi sa che il suo libro è finito come il mio.

LoraWhere stories live. Discover now