6. Confusione

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Avevo dormito pochissimo. Avevo letto tutte le pagine del taccuino del nonno e poi quelle stesse pagine mi avevano tormentato per gran parte della notte. Ed ora ero in piedi, davanti al grosso portone di legno scuro intagliato. Ero immobile ad osservare l'ossidazione dei grossi pomelli, ogni singola crepa, ogni segno del tempo inciso sul regale portone di casa Blandi. Ma non ero immobile nei pensieri, stringendo sul petto il taccuino che avevo chiuso con del nastro rosso che avevo in casa. Perché non riuscivo a non pensare ad altro se non alle parole scritte in blu con la grafia ordinatissima di nonno Vanni. Quelle parole destinate a me ma anche a lui, a Christian. Le conversazioni tra il nonno e Cesare Blandi, trascritte nel tempo, mi avevano mostrato la continua lotta, mai interrotta, tra Christian e suo padre, la volontà di Cesare di dialogare con lui, il tentativo mai sopito di fargli capire l'importanza del casale e di fargliene prendere le redini e l'incoscienza e la caparbietà adolescente di suo figlio al rifiuto di ciò che rappresentava suo padre. Mio nonno raccontava il rammarico e il dispiacere di Cesare attraverso le sue stesse parole, l'eterna incomprensione che lo incatenava a suo figlio e da cui non riusciva a liberarsi fino a divenire insormontabile con l'incidente di Christian. Da quel punto di non ritorno, nonno Vanni si limitava a descrivere quanto Cesare si fosse arreso a quel destino, che aveva voluto trasformare quella crepa tra loro, in una voragine insuperabile e quanto ne soffrisse amaramente, senza poterne uscire, senza averne il tempo.

Christian doveva avere quel taccuino. Leggere quello che suo padre sentiva per lui, quello che lo spingeva a spronarlo e a punzecchiarlo continuamente. Doveva ritrovare in quelle pagine il bene che li legava e fare pace con il suo passato.

Pensavo che i demoni che lo inchiodavano a quel tempo, continuassero a tormentarlo senza lasciargli la possibilità di superare le sue paure. Pensavo che, solo quei demoni del passato, avevano potuto trasformarlo nel Christian con cui avevo avuto a che fare in quei giorni, quel Christian tanto diverso da quello che ricordavo.

Ed era quello il motivo che mi aveva spinto davanti a quel portone di prima mattina.

Feci un sospiro lungo e pesante che risuonò nel silenzio intorno a me, nella strada principale che si dipanava dalla piazza del borgo e a forza staccai la mano destra dal petto, sul taccuino, e bussai. Prima piano, poi diedi due colpi con forza, quindi attesi.

Un brivido mi percorse la schiena, sebbene fosse giugno ed il tepore del caldo estivo già si faceva sentire. Poi di colpo il grosso portone con un cigolio si aprì.

Una donna esile dai capelli brizzolati e mossi comparve alla mia vista. Strabuzzai gli occhi e cercai di focalizzarla, perché i pochi ricordi che avevo della signora Blandi non le corrispondevano affatto, ma capii quando le osservai il vestiario; doveva essere la domestica.

-Buongiorno signorina. Cerca qualcuno?- fece con voce pacata.

-Buongiorno. Sto cercando Christian Blandi. Abita qui, vero?- risposi io, al contrario, con la voce quasi strozzata.

-Sì, certo, ma il signore al momento non è in casa.-

-Capisco...sa per caso quando torna?-

-No, mi dispiace...Vuole che le dica qualcosa?-

-No...io..- allungai la mano con il taccuino e lo avvicinai alla donna -vorrei che gli desse questo. È importante.-

La donna spostò due o tre volte lo sguardo dai miei occhi al taccuino, quindi annuì con il capo e disse:

-Certo. Da parte di chi?-

Chi...chi ero...chi ero io per lui...ancora me lo stavo domandando...

-Da parte di chi?!- chiese ancora.

-Una vecchia amica...lui sa..- o perlomeno avrebbe dovuto sapere, pensai.

La donna accennò un sorriso e mi prese il taccuino dalle mani, poi aggiunse: 

-Bene, buona giornata signorina-

-Buona giornata a lei- risposi mentre la domestica distendeva di poco le labbra in un mezzo sorriso e  richiudeva il grosso portone davanti ai miei occhi.

Mi ritrovai di nuovo immobile e sola, davanti all'immenso portone scuro e mi resi conto che forse il mio subconscio aspettava che da un lato o dall'altro della strada giungesse Christian; ma anche intorno a me tutto sembrava immobile. Doveva poteva essere andato così presto? Al casale? Era ripartito o si era forse fatto negare? Ma soprattutto avrei più riavuto il taccuino del nonno? Me lo avrebbe riportato? Lo avrei rivisto? Mi sembrò di essere più confusa di prima. Fu in quell'istante che il telefono vibrò nella mia tasca. Lo afferrai con lentezza, lo sbloccai e me lo portai all'orecchio senza nemmeno guardarlo.

-Buongiorno Chiara!-

-Cugina...-

-Sono passata da casa tua per la colazione, ma non c'eri...dove sei?- fece lei iperattiva come al solito.

-Sono uscita prima, volevo fare una passeggiata, ci vediamo alla caffetteria in piazza?- risposi d'un fiato.

-Arrivo!-

Rimisi il telefono in tasca e mi incamminai verso la piazza, poi, dopo tre o quattro passi mi fermai. Sollevai la patta della mia borsa di cuoio, che portavo a tracolla, e dalla piccola tasca interna presi la fotografia sbiadita di Cesare e suo figlio.

Non l'avevo lasciata nel taccuino. L'aveva tenuta nella speranza che venisse a chiedermela o nel timore che la distruggesse in mille pezzi o forse più di tutto perché avrei potuto continuare a guardarla. Christian era così piccolo, indifeso e sereno; i suoi occhi chiarissimi brillavano verso l'obiettivo; pochissime volte lo avevo visto così. Cesare era fiero e felice ma soprattutto tanto sorridente. Tutte le volte che lo avevo visto, al casale, non aveva mai sorriso in quel modo; sembrava facesse fatica a sorridere, come se avesse sempre un dolore che gli bruciasse il petto, ancor prima dell'incidente di suo figlio, da quando poi non aveva, quasi, più voluto vedere nessuno; fino al giorno in cui l'infarto se l'era portato via, per sempre, da questo mondo.

Riposi la foto al suo posto e richiusi la borsa, quindi ripresi il passo più velocemente. Arrivata alla caffetteria, mi sedetti ad un tavolino al sole e pochi secondi dopo arrivò Viola.

-Guarda che sole che c'è già! Questo è uno di quei giorni in cui detesto lavorare e vorrei guidare verso il mare!- esordì.

-Hai ragione...- blaterai poco convinta.

-Che è successo ieri al Casale?- 

-Cosa?!- le chiesi alzando per la prima volta gli occhi su di lei.

-Sei assorta e al telefono eri strana...allora?!-

Sospirai e lei lo prese come un cenno e si sedette davanti a me.

-Dai, ti ascolto...abbiamo poco tempo prima di attaccare a lavoro!- mi incitò lei mentre accendeva una sigaretta.


Oltre il Casale ©Donde viven las historias. Descúbrelo ahora