1. Egocentrism

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Nella foto: Haley Wilscord


C'era una casa gialla, affacciata sulla strada; in realtà non era niente di che, la classica villetta bifamiliare con un prato lindo e pulito ossessivamente. L'intonaco era fresco, come se fosse stata appena riverniciata.

Niente da ridire, per l'amore del cielo, tranne la pessima ubicazione, come se qualcuno l'avesse presa e buttata a casaccio ai margini di quell'autostrada sperduta.

Doveva appartenere ad una coppia, il mio istinto me lo suggeriva. Moglie asfissiante e ficcanaso, il marito la tradiva.
Donna sola, lui lavorava tutto il giorno. Forse lei stava impazzendo.

In realtà non ne avevo idea, quell'anonima casa era scivolata alle mie spalle, travolta dal peso della colata di cemento che si espandeva rettilinea per chilometri innanzi.

A lato il nulla, campi verdeggianti e qualche sputo di casa.

Fissavo il finestrino con aria assorta, il mento era appoggiato, pesante, sul palmo della mano sinistra che ormai faticava a reggerlo. Avevo le mani sudate, il che era un controsenso, visto che il bocchettone dell'aria condizionata era puntato sopra la testa. La verità era che si gelava.

Eravamo partiti da due ore - forse -, non avrei saputo dirlo con esattezza. L'ultimo ricordo significativo risaliva a poco prima, quando ero salita su quell'autobus.

Mamma era quasi scoppiata in lacrime, tipico di lei, così iperprotettiva nei miei confronti da divenire ai limiti del pedante. Si era asciugata il suo piccolo naso all'insù, mormorandomi un: «Stai attenta, tesoro mio», e poi mi aveva stretto a sé, inondando quasi il mio maglione preferito.

L'avevo subito respinta - non che fossi insensibile ma, accidenti, un po' di contegno - borbottandole di piantarla, che mi avrebbe fatto fare una figuraccia di fronte ai miei compagni di classe. Aggrottando la fronte - si permetteva anche di recitare la parte dell'offesa -, aveva biascicato un: «Oh, non sei mica al centro dell'universo! Dai tesoro, non ti guardano nemmeno».

«Chi lo farebbe, tappa?» Sempre lui, quell'insopportabile so-tutto-io di Benjamin.

«Taci», avevo ringhiato, acchiappando il trolley farcito di chissà quale diavoleria.

«Affogatici, nel lago!» aveva urlato mentre ormai mi stavo avvicinando al punto di ritrovo della mia classe, accanto al portabagagli.

Gli avevo rifilato un dito medio.

In realtà non mi odiava, era semplicemente fatto così, mi offendeva soltanto per vedere la mia reazione; quando mi mettevo a piangere, però, lui mi seguiva subito dopo, scusandosi immediatamente.

Tipico dei fratelli maggiori, supponevo, visto che non ne avevo - e per fortuna - altri.

Due ore dopo ero ancora lì, obbligata a rannicchiarmi su me stessa per trovare una posizione decente: i sedili erano granito sotto la mia pelle, e qualsiasi movimento mi portava ad un crampo il novanta per cento delle volte.

Il mio unico svago era alitare sulla superficie gelida del finestrino e disegnare con l'indice omini stilizzati e faccine sorridenti dal mio fiato condensato. Che strazio.

«Ohi», masticai, rivolta ad Anne. «quanto manca?»

La rossa alzò il viso, come se l'avessi strappata ad un sogno idilliaco; il suo sguardo era perso, vagò per una manciata di secondi prima di posarsi alla sua sinistra, su di me. Con uno sbuffo, fece sollevare qualche filo ramato dal viso, che si andò a depositare sopra il suo naso. «E io che cosa vuoi che ne sappia?» gracchiò infine, appoggiando la testa sullo schienale del sedile di fronte.

«Chiedevo», borbottai, quasi offesa.

«Dai, scherzavo», proclamò, alzando il viso dal sedile, certa di non poter prendere più sonno. «Credo siamo quasi arrivati, mentre stavi dormendo la prof. ha detto che facciamo tappa... ah, guarda, l'autista sta accostando», osservò, mentre prendevamo l'uscita per un'area di servizio. «Non vedo l'ora di arrivare!» mormorò trepidante, la sua voce traboccava d'eccitazione.

Già, come dimenticarsi quella stupida gita. In verità era l'unica uscita scolastica programmata per quell'anno, fissata a metà di dicembre; gli esami si erano conclusi da qualche settimana, ma tutti noi eravamo ancora storditi e svuotati per "le due settimane di studio matto e disperatissimo", come piaceva chiamarle a me.

Uno stuolo di studenti assonnati e smarriti si riversò al di fuori di quel catorcio di mezzo, intasando il piccolo parcheggio affiancato all'aria di servizio.

«Prendi qualcosa?» mi domandò Anne, gridandomi nell'orecchio per sovrastare il rumore squillante di un clacson appartenente ad un camion, bloccato - come centinaia di macchine, del resto - in un fitto ingorgo stradale.

Scossi la testa fermamente, il tanfo di formaggio ammuffito stava violentando le mie narici, che mi costrinsi a coprire con la parte superiore della maglietta. «No», affermai con voce nasale. Presi enormi boccate d'aria, prima di ritornare in apnea e immergermi in quel locale.

Che schifezza, constatai, mettendo a fuoco quella spoglia struttura decadente, schernita dal tempo; entrando l'effetto era ancora più evidente, le pareti scrostate e unte di chissà quale sostanza oleosa - non ci tenevo a saperlo, davvero - completavano il quadretto di quel maleodorante posto privo di fascino. Il lezzo d'alcol emanato dai clienti di mezz'età mi metteva alquanto a disagio.

«Un locale a cinque stelle», proferii, alzando gli occhi al cielo. C'erano aree di ristoro disseminate per tutta la Scozia, perché mai dovevamo ridurci a... quello?

Anne alzò le spalle, allontanandosi un poco da me per andare a scegliere un panino da mangiare. «Sempre meglio di niente, io sto morendo di fame!» mugugnò, additando un panino dal dubbio contenuto.

Meglio non approfondire.

Mi andai a sedere accanto ad un tavolo da biliardo in disuso, sbuffando sonoramente per enfatizzare il mio disappunto; non che a qualcuno importasse.

Mia madre aveva ragione, il mondo non ruotava attorno a me, eppure certe volte ne avevo come l'impressione. Che stronzate... ovvio che non fosse così. Forse ero paranoica.

Ricordavo il giorno del mio quattordicesimo compleanno: ero stata al settimo cielo, ma appena ero entrata in classe, tutti mi avevano ignorato.

E così ero scoppiata a singhiozzare poco prima dell'inizio della lezione, ricordandomi che ero stata una vera imbecille, che sarei dovuta scendere da quel piedistallo al più presto.

Ancora lì, a due anni di distanza, non credevo di esserci riuscita del tutto.

Ingoiai l'ennesimo fiotto di saliva, eppure il mio stomaco continuava a brontolare: ero affamata, eppure la mia bocca ripugnava il cibo, ancora inondata dal sapore acre di nausea da viaggio.

Mi feci forza: con riluttanza allungai la mano verso il centro del tavolo, afferrando un tozzo di pane posso di chissà quanti giorni prima. Iniziai a masticarlo di malavoglia ed esso si tramutò in calcestruzzo nella mia bocca.

D'un tratto voltai la testa a destra, verso l'uscita, cercando Anne con lo sguardo: nonostante mi frustrasse ammetterlo, mi dava fastidio rimanere da sola.

Per puro caso mi scontrai il viso di un'altra persona: il suo sguardo era vacuo e acquoso, come se fosse ubriaca, ma io ero sicura del contrario. La determinazione era leggibile nelle sue iridi opache. Eppure... perché, perché quella donna osservava me in quel modo?

Che sciocchezza... come al solito il mio egocentrismo prendeva il sopravvento.
Perché mai avrebbe dovuto farlo?

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