6. Iron Chains

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«Ha una camera disponibile?», esalai, di fronte alla giovane receptionist. Dovevamo avere qualche anno di differenza.

Ancora lì, mentre respiravo affannosamente di fronte alla donna, non mi capacitavo dell'aver trovato un hotel così facilmente; era affacciato sul lago, mi era bastato attraversare la strada.

«Ti senti bene, tesoro?», chiese, riscuotendomi dalla testa ai piedi e osservandomi dalla testa ai piedi. «Non hai nemmeno una valigia», obiettò.

E certamente non sarei andata a riprenderla in quella gabbia di matti.

«No. Cioè, sì... non lo so», farfugliai. «Sono confusa».

«Non puoi prendere una camera», sospirò. «Sei minorenne e senza soldi, e io avrei da fare. Molto da fare». Ritornò a guardare un plico di fogli, continuando a ticchettare la penna sul tavolo e a mangiucchiarsela.

«Ma io ho questo», affermai attirando la sua attenzione. Tirai fuori il coltello.

La ragazza sgranò gli occhi, sillabando un «S-sicurezza!» smorzato dalla paura.

«Lo posso impegnare», continuai pacata.

«Oh... sì, sì», balbettò, ricomponendosi.

«E intanto lavorerò da qualsiasi parte», avanzai. «Lavare i piatti, pulire le stanze, finché i miei genitori non mi verranno a prendere», continuai ad inveire, agitando animatamente il coltello affilato tra le mani. Almeno ero sicura di avere la sua totale attenzione.

«C-certo. Formalmente, tu non sarai mai stata qui», precisò, consegnandomi la chiave di metallo della camera 147. «Tra cinque giorni devi sloggiare da qui, c'è un'altra prenotazione».

«Perfetto», acconsentii.

«Jen, sai per caso che fine ha fatto quella classe in gita...» Un'uomo tarchiato e con un'imbarazzante alone di sudore sotto le ascelle si avvicinò al bancone, ignorandomi totalmente.

«Non ne ho idea, era una prenotazione da sedici camere», biascicò, passandosi una mano tra i capelli.

«Era la nostra!», mi intromisi. Evidentemente quei due dovevano aver architettato tutto fin dall'inizio.

Tre, mi corressi mentalmente. Anne mi aveva distrutto il telefono, impedendomi di chiamare a casa.
Era in debito con me di duecento sterline e tanti, tanti cazzotti.

Pensare che l'avevo davvero creduta mia amica... non potevo essere stata così stupida. Mi ero lasciata abbindolare da quei falsi sorrisi, quell'allegria spenta che, ripensandola in una diversa prospettiva, era stata progettata come un copione da teatro.

Da molto tempo nutrivo dei forti dubbi, mai un momento di debolezza, di tristezza, di realtà.

Decisi di non prestare più fiducia a nessuno. Ero stata presa così in giro e sfruttata che ero diventata insensibile. Avrei voluto riempire il suo felice faccino di botte.

«Cosa?», masticò l'uomo, guardandomi spaesato.

«La mia classe doveva alloggiare qui, ma ci hanno detto che l'hotel era in fase di ristrutturazione...», bisbigliai, frustrata.

«Infatti la tua insegnante ha disdetto la prenotazione il giorno stesso, e ci ha fatto perdere un sacco di soldi», aggiunse la ragazza.

E gli altri? Come stavano? Non avevo idea di cosa avessero infilato nel cibo, ma sembravano dei robot comandati a distanza.

Un solo nome era alla base di tutto: Helene Baudlaire, quella fantomatica ragazza di cui mi aveva parlato la donna, ma non avevo ascoltato molto; ero troppo stordita.

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