7. Fallen angel

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Una settimana. Una settimana e sarebbe tutto finito; era quello il termine della gita, poi sarei stata protetta a casa mia, al sicuro, dai miei genitori.

Morsi la mela che avevo malamente appoggiato sul tavolo presente nella stanza nella quale alloggiavo ancora.

Avevo tra le mani decine di documenti, stampati con il computer della reception - ma non si accorgevano di nulla? - e continuavo a rigirarli tra le mani.

Lessi ad alta voce: «Helene Baudelaire nacque nel 1881 ad Edimburgo, in Scozia. Ultima discendente della ricca famiglia Baudelaire, di origini francesi, morì a soli sedici anni per tubercolosi».

Tutto qui? Veramente?

Aveva sedici anni... la mia stessa età. Scacciai questo pensiero e ripresi a leggere un altro foglio, ma le notizie erano pressappoco le stesse. Possibile che non riuscissi a trovare niente di più?

Iniziai a mettere in disordine i fogli ancora di più, e ne scovai un altro, un altro che non avevo mai visto: la pagina era rovinata e ingiallita, la calligrafia sottile e tagliente.

"Dolcissima Helene,
sono onorato di dirvi che la cena di ieri sera si è svolta magnificamente: tutti, compreso me, sono rimasti affascinati da voi. Ci avete incantato, con i vostri capelli di nera seta, il vostro portamento composto e le vostre maniere da perfetta padrona di casa. Avete un sorriso più dolce di un petalo di rosa, la vostra acuta risata è un balsamo per le mie orecchie. Spero di gioire della vostra presenza in un'altra occasione molto, molto vicina.
Non smetterò nemmeno un secondo di pensare ai vostri splendidi occhi.
Arrivederci."

La firma era sbiadita, cancellata dal tempo.

E meno male... accidenti. Forse ero io insensibile o, più che altro, non adatta a smancerie del genere, ma questo era troppo.

Questa ragazza sembrava non avere nemmeno un briciolo di personalità, era... irritante, ancor più del mittente. Rigirai il foglietto, sorpresa di trovare qualche altra riga; ma la calligrafia era diversa, più accurata, piena di ghirigori: era la risposta.

"Carissimo Evan,
siete stato la persona più amabile che abbia mai conosciuto. Amo la vostra cortesia, il vostro cuore e la vostra gentilezza. Avete il viso più piacevole che abbia mai visto, le lentiggini poi... siete adorabile! Confido di poter risentire un'altra volta la vostra voce, così melodiosa che mi riscalda il cuore.
A presto,
-H."

Puah. Alzai gli occhi al cielo, probabilmente ero diventata un'ebete per osmosi. «I vostri splendidi occhi!», mimai, in segno di sfregio. «Oh Dio, la coppia più smielata dell'anno!», borbottai, lasciandomi andare a peso morto sul materasso.

Un lieve fruscìo accarezzò il mio orecchio; mi voltai, notando un altro foglio accanto a me. Ma da dove diavolo provenivano? Perché io ero certa di non averli mai visti.

"La vita è più piacevole con te. Mi accorgo che anche solo un attimo passato con te non è equiparabile a cento senza la tua presenza. Helene, mi manchi. Ritorna da me."

Un groppo mi salì in gola. Era così triste. Girai il foglietto, ma qui non c'era risposta.
Mi pentii subito di averli derisi, sembravo senza cuore.

Mi alzai improvvisamente e decisi che dovevo fare qualcosa, qualsiasi cosa; la sensazione di impotenza provata in momenti del genere era asfissiante. Misi il giubbotto e, dopo aver chiuso a chiave, mi avvia verso l'uscita dell'hotel.

«Ciao Jen», salutai cordialmente l'impiegata, che mi fissava arcigna. Non mi ci era voluto tanto a sapere il suo nome. «Senti...», iniziai a giocherellare con la zip del cappotto, rigirandola tra le mani e aprendola a scatti. «Posso riavere il mio coltello?», supplicai, con fare innocente; la situazione era grottesca: io, come una bambina di cinque anni, piagnucolavo di riavere il mio coltello.    

«Nemmeno per idea!», sbottò, scomponendo l'ordinato chignon sul suo capo; alcune ciocche castano chiaro le ricaddero sul volto pulito. «Sei solo una ragazzina, non puoi portare armi del genere. Per maneggiarlo, io mi sono tagliata almeno quattro o cinque volte», affermò, mostrandomi la mano piena di cerotti.

«Sarò solo una ragazzina, ma lei non è mia madre», ribattei, prendendo le dovute distanze.

La donna ci restò parecchio male, ma nonostante ciò non obiettò nulla. Mi consegnò l'affilato coltello con un'espressione imperturbabile dipinta sul volto. «Dal momento che ha ripreso l'oggetto che aveva impegnato e non ha ancora pagato, non è più autorizzata a soggiornare qui».

Spalancai la bocca, ma non ebbi il coraggio di ribattere: qualcosa mi stava trascinando fuori da quel posto, qualcosa di potente, proveniente dal centro del mio petto. Non riuscivo più a spiegare questo senso che mi spingeva ad andarmene da lì, così, senza proferire più una sillaba, presi lo stiletto in silenzio e mi avviai a passo spedito verso la porta.

L'aria era gelata, mentre la neve si estendeva in altezza per almeno venti centimetri. Era impressionante.

Camminavo velocemente, non avevo la più pallida idea di dove andare; ad ogni passo che facevo verso una misteriosa destinazione, sentivo il mio corpo sempre più lontano, fino a che, ad un tratto, sentii con un tonfo sordo la mia mente separarsi definitivamente da esso.

Non avevo più il controllo del mio corpo.

Camminavo come un'automa, non riuscivo a fermarmi, nonostante ci provassi con tutta me stessa. L'aria si sfaldava contro il mio viso, lo sferzava, era tagliente. Io continuavo a camminare, imperterrita.

Marciai a passo sostenuto fino a che non fui un imponente cancello in ferro battuto, in cima ad una collina isolata dal resto del mondo. "Cemetery", leggevo.

Merda! Avevo un pessimo, pessimo presentimento.

Le lapidi formavano un reticolo ordinato, nulla era fuori posto in quel luogo che odorava di morte. Perché, di viva, c'ero solo io.
Di fronte a me troneggiava un'enorme statua di un angelo: egli schiudeva le sue ali di pietra, e la statua aveva congelato per sempre quell'unico momento, incastonato ormai in marmo squagliato dal tempo. Aveva le mani sul viso, come a disperarsi: perché una creatura così sublime piangeva? Per chi piangeva?

Probabilmente per la stessa persona per cui tutti piangevano. Oh, angelo, perché trasmetti così tanta tristezza?
Il mio corpo ricominciò a muoversi, sistemandosi proprio di fronte alla lapide sopra cui era posta la statua.

Mi inginocchiai con fare robotico, ma quando lessi la lapide, il mio cuore prese a battere all'impazzata.

«Helene Baudelaire», iniziò il mio corpo, senza che volessi parlare davvero. «Nata nel 1881. Morta... mai».

Era un incubo, un incubo! La mia mano si allungò inesorabilmente lungo la lapide, cercando di sfiorare, di assaggiare la consistenza della pietra scura.

Ripresi il controllo del mio viso e iniziai a singhiozzare, consapevole del mio destino crudele.
Perché dovevo morire proprio io? Io, ricordata come copia sbiadita di una ragazza morta; io, a cui nessuno pensava. Perché io ero solo un intralcio.

Sacrificarsi per la vita di un'altra persona, morire per salvare Helene Baudelaire.

Il suo tempo si era concluso due secoli fa, ma il mio, il mio stava per concludersi in quel momento.

Sfiorai la pietra, e dopo, tutto fu nero.

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