4. Darkness Injection

295 30 58
                                    

«Io non voglio stare qui!», urlai, sfogando la mia rabbia per l'ennesima volta. «Questo posto... questo posto fa schifo!». 

Anne era stranamente silenziosa, cosa fuori dal normale durante uno dei miei sfoghi. 

«Anne! Anne, ci sei o no?», la scossi, mentre cadeva dalle nuvole.

«Cosa... oh, sì, sì ci sono», balbettò.

«Dannazione! Non ho la minima intenzione di rimanere in questo posto mezzo distrutto, io me ne vado!», affermai sballottando la mia valigia sul vecchio letto a baldacchino.

Era così irreale, persino la camera sembrava provenire da un altro tempo, come l'antica Scozia. Tutto era in stile vittoriano.

Anne scoppiò a ridere: «E come? Dai, sentiamo. Non puoi andartene da qui». Mi sembrò la conclusione di un sibilo nella mia mente.

«Davvero?», ringhiai. «Chiamo...», borbottai, iniziando a trafficare dentro il mio zainetto. Bingo! Finalmente il mio cellulare, che dopo tre mesi si rivelava utile. «Sì! Chiamo a casa, mi verranno a prendere».

Iniziai a pigiare con forza, ma poco prima di chiamare effettivamente, Anne me lo strappò via di mano, aprì la finestra e lo lanciò di sotto.

Ero... impietrita.

«Ma sei scema?!», gridai, quando mi fui ripresa dallo shock. «Oh... oh no, si è rotto!», urlai, osservando i metallici frantumi schiantati al suolo.

«Non c'è di che», riprese allegra, uscendo dalla stanza saltellando.

Questa... non ci voleva. Ero fuori di me, dannazione! Bloccata in quel posto per una settimana, non potevo resistere.

Non avevo vie di comunicazione con l'esterno, eravamo tutti confinati in quell'alloggio spettrale.

Per ripicca iniziai a rovistare tra le sue cose. Avrei preso il suo cellulare e, dopo aver chiamato mia madre, gli avrei fatto fare la stessa fine del mio.

Ovviamente non c'era. Che illusa.

Il cielo iniziava a scurirsi, rivelando sbuffi di nubi cerulee volteggiare sopra il tetto distrutto. Non potevo resistere in quel luogo, non per una semplice nostalgia di casa... mi sentivo irrimediabilmente relegata in una gabbia dorata, una gabbia in cui qualcuno aveva gettato la chiave.

Quelle vivide sensazioni... come potevo provare tutto ciò soltanto per un luogo sperduto che non avevo mai visitato?

Il bussare leggero alla porta mi riscosse momentaneamente dai miei pensieri. «Signorina? La cena è servita, scenda giù insieme ai suoi compagni». La voce della signora anziana mi apparve forzatamente umile, come un destriero indomito legato a terra.

Cosa... che cavolo stavo farneticando?

«Arrivo», mormorai, alzandomi dal letto a baldacchino. La donna aveva lo sguardo vacuo, persino l'occhio funzionante sembrava guardare un punto indefinito alle mie spalle. «La sala da pranzo?», chiesi, cercando di spezzare il silenzio. Prese il candelabro che aveva precedentemente posato a terra e mi condusse lungo l'angusto corridoio in pietra senza proferire parola.

«Quanto è antica questa villa?», domandai, sfiorando con i polpastrelli la gelida parete; non ero semplicemente a disagio, formulai quella domanda anche per una sincera curiosità.

C'era qualcosa che mi attraeva e respingeva allo stesso tempo in quel posto.

«Costruita nel lontano 1756», biascicò, quasi rammaricata. «appartiene alla famiglia del signorino da generazioni», affermò, ingobbendo ancora di più la schiena.

«Il signorino?», ripetei, alzando finalmente lo sguardo.

«Colui che l'ha accolta all'ingresso», soggiunse. «Io... io sono solo un'umile serva...», esalò, cercando di chiarire la sua posizione sociale.

«Non è vero», replicai. Il portamento fiero, austero e severo precedente era degno di una vera nobildonna. «Non finga».

Rimase in silenzio, mutando la sua espressione in una smorfia di fastidio e disappunto. «Ragazzina impertinente», sussurrò infine. «Siamo arrivati», affermò a voce più alta, continuando a tenere un tono fastidiosamente umile.

Il salone era enorme, le pareti erano costellate da dipinti ormai sbiaditi e lasciati in balia di sé stessi. La scalinata che portava al piano superiore era distrutta, il gigantesco lampadario di brillanti che troneggiava proprio nel centro della sala era coperto dalla polvere; creava un alone scuro e sinistro.

«Quindi vieni dall'Inghilterra?», civettò Anne, in direzione del ragazzo dai capelli scuri, inghiottendo un pezzo di carne e con un sorriso sornione sul volto. Cosa? Cos'era quella farsa? Quando eravamo arrivati sembrava paralizzata dalla paura, mentre lì ci stava quasi flirtando.

Un brivido mi percorse la spina dorsale, subdolo, infimo. Mi parve di essere circondata da attori.  

Finsi un sorriso e mi sedetti al tavolo, il più lontano possibile da quei due; tutti mangiavano in silenzio come degli automi, incapaci di spiccicare persino una sillaba.

Presi una coscia di pollo e la sbranai, incurante degli sguardi dell'intera tavolata su di me. Anche il più piccolo accenno di conversazione si spense, come ansiosi di vedere una mia reazione. «Mhm... buono?».  Che cosa si aspettavano? Che baciassi i piedi al cuoco? «Davvero, complimenti», aggiunsi, giusto per essere sicura.

«Sei sicura di aver provato tutto?», chiese il ragazzo.

«Accidenti, no! Mi sono appena seduta», obiettai, attingendo dal piatto un cucchiaio di salsa. Ci intinsi il pollo: aveva un sapore acre, pungente. «Scusa, mi passi l'acqua?». Pronunciata questa domanda, il silenzio ripiombò ancora nel salone. «Johnny, ci sei?», ripetei, ma il ragazzo continuava a mangiare come un automa. «Insomma! Lascia stare», borbottai, e pur di non alzarmi mi allungai verso destra, sovrastandolo. Presa la brocca, urtai con il gomito il piatto di minestra che stava mangiando, rovesciandolo interamente su di lui.

«Oh cavolo, mi dispiace tanto! Lascia che...». Lasciai la frase sospesa nel vuoto, osservando con terribile inquietudine Johnny, che continuava a fare lo stesso meccanico movimento dal cucchiaio alla sua bocca, nonostante il contenuto non ci fosse più; era rovesciato interamente sul suo braccio, ma non emetteva un sibilo.

La minestra era bollente.

Elaborai tutto ciò un secondo esatto dopo il ragazzo del quale non conoscevo ancora il nome, che si era alzato dalla sedia poco prima di me.

«Io... è meglio che vada», balbettai, indietreggiando. Era... era innaturale! Sapevo che c'era qualcosa di strano, ma non avevo mai pensato a qualcosa di così strano.  

«C'è ancora cibo in abbondanza», iniziò mellifluo, avvicinandosi verso di me.

«Non toccarmi!», urlai, voltandomi per correre in stanza, chiudermi a chiave e non uscire mai più. Ma di fronte a me trovai ben altro: la vecchia mi cinse tra la sua morsa d'acciaio, mentre io mi dimenavo come una forsennata. «Lasciami andare!», gridai, buttando fuori tutta l'aria che avevo in corpo.

«Taci, umana!». Eccolo: il tono imperioso, grave, che non ammetteva repliche. Per una volta non mi ero sbagliata.

«Dove la portiamo?», chiese il ragazzo, passandosi una mano tra i capelli scuri.

«Ma nei nostri migliori alloggi, ovviamente», soggiunse l'anziana. «È così che noi trattiamo gli ospiti», ebbi paura di morire quando sentii un ago sottile e affilato penetrarmi nel collo, proprio sotto l'orecchio. «Questo stenderà perfino lei per un po', senza dubbio», farfugliò, mentre sentivo il mondo vorticare, scomparire sotto i miei piedi.

Caddi in ginocchio, finché non fui avvolta dalle tenebre.  

________

Scusate, scusate! Capitolo cortissimo per necessità narrative. Un bacio,
~Marghe

BlackholeDonde viven las historias. Descúbrelo ahora